La Germania di Weimar. Utopia e tragedia


Sono ormai trascorsi quarant’anni dall’uscita di Weimar Culture, saggio capolavoro di Peter Gay dedicato agli artisti e agli intellettuali della Germania di Weimar. L’ultimo lavoro di Weitz cerca di aggiornare l’impresa del suo predecessore rivolgendosi allo studio delle manifestazioni culturali sviluppatesi in Germania negli anni Venti e tenendo sullo sfondo il più complesso panorama delle vicende sociali e politiche della Repubblica di Weimar. La tesi di fondo del libro è che a spingere nel precipizio il tentativo di democratizzazione e modernizzazione del paese tedesco all’indomani della Grande Guerra fu l’azione combinata di una destra tradizionale composta da alte cariche della gerarchia militare prussiana, giudici, insegnanti universitari, industriali, nobili e funzionari statali, da un lato; e di una destra nuova ed estrema, capace di sfruttare al meglio gli strumenti della mobilitazione di massa come la radio, i cinegiornali, la stampa di propaganda, dall’altro lato. Nell’elaborazione di questa tesi Weitz si appoggia a un celebre lavoro dedicato alla Germania di Weimar: Verspielte Freiheit di Hans Mommsen (1989). Ma ciò che rende stimolante la ricerca di Weitz è anzitutto il proposito di illustrare i prodotti più significativi della cultura weimeriana alla luce di una contraddizione fondamentale che innerva l’intera vicenda politica di quegli anni. Da un lato, la vocazione utopica di innovazione della società, condivisa, oltre che dall’area più progressista del parlamento, da architetti, scrittori, pittori, fotografi e registi; dall’altra, un’inestirpabile e diffusa ostilità nei confronti della Repubblica e dei suoi principali fattori di modernità (democrazia rappresentativa e multipartitica, libertà di stampa), prodotto di un residuo ideologico risalente alla cultura elitaria della destra prussiana (Ernst Bloch l’avrebbe chiamata "sacca ideologica") e propagandata tra l’elettorato del ceto medio e medio-alto dalla destra più estrema nei termini esasperati di un nazionalismo violento fondato sui principi della razza e della germanità. Da questo punto di vista, l’analisi condotta da Weitz ha il pregio di illuminare zone d’ombra della cultura tedesca filosofica e letteraria degli anni Venti, dimostrando come molti degli elementi che costituiranno nel decennio successivo la retorica del partito nazionalsocialista fossero già presenti nel repertorio linguistico di molti intellettuali (tra i quali Spengler, Jünger, Schmitt, Spahn). Lo stesso Hitler, dunque, non avrebbe inventato nulla di nuovo sul piano del linguaggio, ma avrebbe altresì riutilizzato un lessico già esistente e condiviso da tutti coloro che criticavano la laicità e modernità del System Weimar.

Dati aggiuntivi

Autore
Anno pubblicazione 2009
Recensito da
Anno recensione 2009
ISBN 9788806194215
Comune Torino
Pagine 2009
Editore