Responsabilità

Figure e metamorfosi di un concetto


L’indagine di Vittoria Franco sulle figure e le metamorfosi del concetto di «responsabilità» prende le mosse dalla tesi che vede nell’individualismo un prodotto dell’età moderna. La dissoluzione delle società gerarchiche ha condotto alla nascita dell’individuo «contingente» e «casuale», ovvero non più assoggettato alla «Grande Catena» che ha legato tra loro, per secoli, i vari ordini sociali. L’individuo moderno, dopo aver sperimentato il disincanto nei confronti delle imposizioni delle etiche tradizionali e religiose, si trova costretto ad amministrare la propria libertà. Ma dal momento che la condizione umana è immediatamente relazionale e sociale, egli è continuamente chiamato a rispondere delle conseguenze delle proprie azioni, scoprendo dunque che libertà e responsabilità sono legate indissolubilmente.
Vittoria Franco distingue tre modi diversi di intendere la responsabilità: la responsabilità politica consiste nell’esercizio di un potere che è autorizzato dagli ordinamenti giuridici vigenti; essa è costitutivamente ambivalente, dal momento che sottende sia un’attribuzione di potere, sia i limiti entro i quali l’esercizio di tale potere è legittimo, e fuori dai quali diventa mero arbitrio. Essere responsabili dal punto di vista giuridico significa invece essere imputabili, ovvero soggetti a punizione in seguito alla trasgressione di una norma: l’agente è giuridicamente responsabile quando contravviene a una legge che egli è tenuto a conoscere. Kant è stato il più efficace nel distinguere tale senso giuridico di responsabilità da quello filosofico-morale: è moralmente responsabile l’individuo che agisce in maniera autonoma, ovvero non determinato da forze esterne, perché «dove c’è costrizione non c’è accountability, non c’è moralità» (p. 34).
Il determinismo è dunque la sfida più rilevante alla possibilità della responsabilità morale: se la coscienza è determinata, allora libertà e responsabilità non sono altro che illusioni. Per questo motivo, la ricostruzione storica si concentra in primo luogo sulla reazione spiritualista al determinismo dei positivisti francesi della seconda metà dell’Ottocento. Spiritualisti come Elme Marie Caro seguono le orme kantiane nell’identificare l’idea di responsabilità con quella di autonomia morale, che è quanto distingue la libertà umana dalla «libertà del girarrosto». Analogamente, la «responsabilità vuota» teorizzata negli stessi anni da un sociologo come Lucien Lévy-Bruhl accoglie la distinzione kantiana tra responsabilità legale e morale: la sua idea di responsabilità è priva di contenuto nel senso che non richiede conformità a norme eteronome, rispetto alle quali si può essere imputabili, ma esige piuttosto l’obbedienza al proprio intimo sentimento del dovere. Il tribunale che sancisce la responsabilità morale risiede dunque nella coscienza individuale, e non negli apparati giuridici della Chiesa o dello Stato.
Il giovane e inquieto Jean-Marie Guyau aggiunge un elemento ulteriore all’idea di responsabilità morale, di cui anche Nietzsche è debitore. Se essere autonomi vuol dire darsi da sé le proprie leggi, allora è necessario che l’individuo responsabile sia in primo luogo capace dell’attività creatrice che consiste nell’edificare il proprio destino. Preconizzando tematiche bergsoniane e simmeliane, l’imperativo morale di Guyau esige l’affermazione della «vita feconda e traboccante»: «sviluppa la tua vita in tutte le direzioni, sii un individuo quanto più possibile ricco di energia intensiva ed estensiva; perciò sii l’essere più sociale e socievole» (p. 60). Il vitalismo di Guyau ha esiti immediatamente altruistici: l’individuo vitale diffonde spontaneamente sugli altri la propria sovrabbondanza di positività ed energia. Non è un caso se Nietzsche annota a margine di questi passi: «dare sfogo alla volontà di potenza» (p. 61).
Lo stesso Nietzsche influenza Nicolai Hartmann nel suo affermare che la responsabilità richiede «potenza morale», ovvero la capacità di farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni: l’individuo autenticamente libero non dispone di punti di appoggio esteriori sui quali scaricare il peso delle proprie colpe. Per Hartmann, tuttavia, l’individuo non è il creatore delle scale di valori che orientano la sua condotta: i valori hanno un’esistenza oggettiva e indipendente, che è possibile conoscere attraverso un’intuizione morale differente da ogni forma di conoscenza empirica. Questo non toglie, tuttavia, che la scelta tra i valori a cui ispirarci sia libera: siamo capaci di conoscere valori oggettivi tra i quali ciascuno di noi è chiamato a scegliere soggettivamente.
È per ragioni analoghe che Roman Ingarden vede nei valori e nell’identità della persona i due fondamenti ontologici dell’idea di responsabilità: se non esistessero valori oggettivi sarebbe impossibile sottrarsi al relativismo assoluto, che svincola pericolosamente da ogni responsabilità; mentre se l’individuo fosse un semplice «fascio di sensazioni», privo di continuità, egli non sarebbe nemmeno capace di ricordare quali siano le condotte, le azioni e i giudizi di cui è chiamato a rispondere.
Le riflessioni di due pensatrici contemporanee come Hannah Arendt e Agnes Heller sono prese in analisi per delineare due ulteriori aspetti della responsabilità nel nostro tempo: da un lato, essa richiede il coraggio di abbandonare le comodità della sfera privata per confrontarci con i rischi con cui ci misuriamo negli spazi pubblici, dei quali dobbiamo occuparci se vogliamo avere «cura del mondo» in cui viviamo; dall’altro, essere responsabili vuol dire farsi carico del richiamo dell’altro nel momento stesso in cui egli ci si manifesta con tutte le sue debolezze e fragilità.
L’eclisse della responsabilità individuale è un rischio concreto nelle società contemporanee: con la crescita esponenziale della burocrazia l’individuo avverte continuamente la tentazione di delegare la propria facoltà di giudizio e la propria libera iniziativa allo Stato, «il più freddo di tutti gli idoli». Nelle forme più radicali in cui si è manifestata la devozione al potere costituito, l’imperativo categorico è diventato quello di Hans Frank: «agisci in una maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe» (p. 98). È la ragione per cui, per Arendt come per Heller, è necessario resistere a un pericoloso espediente retorico utilizzato dai totalitarismi, ovvero il richiamo strumentale al «senso del dovere» e di «responsabilità» volto a giustificare la rinuncia alla capacità individuale di libera scelta, in favore di un’obbedienza incondizionata.
La tesi fondamentale che Vittoria Franco accoglie da Arendt è l’idea che la libertà esista solo in uno spazio pubblico protetto da garanzie politiche; nella sua formulazione, dunque, la responsabilità politica consiste nella laboriosa attività necessaria a preservare le condizioni di possibilità di tale spazio. Il pensiero di Heller è invece teso a rimarcare il carattere contingente della responsabilità individuale: dal momento che l’etica contemporanea è priva di fondamenti ultimi, qualsiasi tentativo di vincolarla a leggi o imperativi universali è destinato al fallimento. Il tentativo di proporre un ideale regolativo, proprio della «filosofia morale» classica, è sostituito da Heller con un’«etica della personalità», il cui fondamento non è altro che «la stessa persona retta e onesta» (p. 139) che segue la massima che la invita ad avere cura degli esseri umani con cui entra in relazione. L’etica della personalità è quella di chi sceglie di trasformare nietzscheanamente la propria contingenza, le proprie inclinazioni e i propri difetti nel proprio destino.
La domanda conclusiva riguarda l’ampiezza delle esigenze e del numero di soggetti a cui, per essere ritenuti responsabili, siamo realisticamente chiamati a rispondere: se per Emmanuel Lévinas il nostro senso di responsabilità è talmente vincolante che «l’incontro con altri rappresenta immediatamente la mia responsabilità per lui» (p. 150), secondo Hans Jonas esso deve estendersi fino al punto da spingerci a voler garantire una vita dignitosa alle generazioni future. Ma se l’individuo contemporaneo è contingente, casuale e moralmente fallibile, in quale momento un richiamo così impegnativo alla sua responsabilità diventa «irresponsabile»? La tensione verso una «cura» indefinita, oltre a richiedere risorse cognitive e morali ben superiori rispetto a quelle di cui dispone un essere limitato come l’uomo, si espone al rischio di scivolare verso la forma più insidiosa di educazione all’irresponsabilità, ovvero il paternalismo. Per questo è necessario quello che Bernard Williams definisce un reciproco «riconoscimento di responsabilità» (p. 187): la responsabilità non deve concretizzarsi in un’imposizione unilaterale, ma nella ferma volontà di preservare una pluralità di punti di vista sul mondo.

Dati aggiuntivi

Autore
Anno pubblicazione 2015
Recensito da
Anno recensione 2015
ISBN 9788868431938
Comune Roma
Pagine XII+196
Editore