Esercizi di utopia

Quattro video di Luz María Bedoya

  • da venerdì 24 Febbraio 2012 a venerdì 20 Aprile 2012 - 15.00
Centro Culturale

Muro (2002-2005, 37’40”)
El paracaidista (2003, 90’09”)
Dirección (2006, 5’03”)
La barra (cerca/lejos) (2011, 8’40”)

La morte dell’utopia è stata più volte affermata quale inevitabile conseguenza del tramonto delle ideologie totalizzanti. Orfano delle “grandi narrazioni”, che Jean-François Lyotard indica come principali ispirazioni delle utopie rivoluzionarie, l’uomo contemporaneo sembra oggi incapace di immaginare mondi nuovi in grado di trascendere la realtà. Nella raccolta di poesie Parole in cammino (1998), lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano propone un’analogia tra l’orizzonte e l’utopia: «Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare».
I video dell’artista peruviana Luz María Bedoya esplorano lo spazio interstiziale creato da questo incessante procedere. Nel video La barra (2011) una figura femminile corre nel silenzioso paesaggio del deserto tracciando traiettorie apparentemente prive di senso. Il suo movimento erratico delinea i fluttuanti confini di una zona di indeterminatezza. Come il titolo stesso suggerisce, la scena non si svolge né vicino né lontano ma nello spazio che separa due categorie contrapposte: la barra, appunto, un simbolo che per sua stessa natura pone il problema della separazione e dunque del superamento di un confine.
L’assenza di un luogo di effettiva esistenza, che connota l’utopia fin dall’origine etimologica greca del termine, sembra essere la causa dell’incessante e indefinito girovagare del video Dirección (2006). Le immagini mostrano una sequenza di persone che, per le strade di Lima, indicano a gesti una direzione da seguire. Il punto di partenza del viaggio non è mai svelato né sappiamo quale sia la mèta. Unica certezza è la necessità di un movimento continuo che non faccia mai terminare l’esercizio della ricerca.
È nella creazione di spazi dai significati aperti che si articola l’intera opera di Luz María Bedoya. Il video Muro (2002-2005) nasce da una performance realizzata dall’artista in diverse città del mondo che consiste nel riempire i buchi dei muri urbani con fogli accartocciati. Su ciascun foglio è stata scritta una frase, composta mescolando idiomi diversi ma con una musicalità e una struttura grammaticale verosimili. L’azione è destinata a non raggiungere mai esiti positivi: qualora fossero trovati, questi “messaggi nella bottiglia” in versione metropolitana, non potrebbero comunque esser decifrati. Ciononostante il gesto viene reiterato a sottolineare che quel che conta non è affermare delle certezze quanto piuttosto sollevare interrogativi. Cosa potrebbe pensare chi si imbattesse in uno dei messaggi?
Anche nel video El Paracaidista (2003) l’esito dell’atto comunicativo è reso incerto poiché affidato all’azione di un pennello che, intinto nell’acqua, scrive su una superficie di carta. La lettura è difficoltosa e possibile solo in uno spazio transitorio: appena posate sul foglio, le tracce d’acqua si dissolvono, lasciando giusto il tempo di memorizzare le lettere apparse per pochi secondi. Nelle immagini si compongono lentamente descrizioni di scene di film e libri, di opere d’arte che parlano di piccoli e grandi atti di trasformazione: Jorge Luis Borges che, spostando una manciata di sabbia nel deserto, dice «Sto modificando il Sahara»; Francis Alÿs che spinge un cubo di ghiaccio per le strade di Mexico City fino a che non si scioglie; Marina Abramović che grida fino a rimanere senza voce nella performance «Freeing out the voice»; la frase di un suonatore criollo, Óscar Avilés, secondo cui «le note più importanti non sono quelle che si suonano, ma quelle che non vengono suonate»; oppure l’ultima scena del film Underground di Emir Kusturica in cui la porzione di terra sulla quale la famiglia sta ballando si stacca dal continente e dalla ex Yugoslavia. Il video di Bedoya, parte di un’installazione più ampia e presentato per la prima volta autonomamente, gioca sul concetto di transitorietà, sottolineando come la grandi trasformazioni possano scaturire anche da gesti minimi e solitari.
Nonostante la forza con cui la realtà attuale si autoafferma come l’unica possibile, l’utopia, abbandonata la forma grandiosa e visionaria di un tempo, trova nuovi modi di esistere. I video di Luz María Bedoya non propongono modelli alternativi di utopie definite ma aprono al contrario spazi di indeterminatezza, di nuove contraddizioni, ambiguità e dubbi. È forse in spazi come questi che è oggi possibile esercitare nuove forme di utopia.

Francesca Lazzarini

Comunità ideale e città perfetta, così come non-luogo ed essere senza luogo, l’utopia attraversa da sempre spazi e tempi senza perdere la propria capacità immaginativa, mostrandone sia la dimensione concretamente costruttivistica sia il carattere ambiguamente illusorio. Contro ogni immagine dell’esistente cristallizzata in una concezione chiusa e determinata del reale, l’utopia rimanda infatti alla dimensione della «possibilità» per giungere a promuovere forme di pensiero sul mutamento e sulla contingenza, sulla fragilità e sulla caducità, sul futuro e sulla speranza, sulla provvisorietà del presente e sull’incompiutezza dell’umano, in un continuo interscambio tra sogno e realtà. L’utopia è intrinsecamente apertura e immaginazione; è un’attesa senza approdo, una critica della pretesa datità del reale e dell’esserci inteso come necessità; è la promessa e la possibilità che l’umano ha di salvaguardare le sue occasioni di fare di se stesso ciò che è capace di diventare. Di tutto ciò parlano i video di Luz María Bedoya, caratterizzati da un movimento incessante anche quando mostrano staticità in cui sembra però che qualcosa stia sempre per accadere. È il caso di La barra, in cui l’attraversamento di un paesaggio deserto avviene in direzioni multiple e contraddittorie, senza un disegno compiuto in grado di risolvere il compito infinito dell’umana fatica di attraversare la vita e il mondo. «Verso dove?» è la domanda che si spiega davanti ai nostri occhi e a cui non rispondono né le figure del video Dirección, nel loro pluralismo esistenziale e nel loro relativismo inconsapevole, né la scrittura enigmatica del video El paracaidista, che appare e scompare in un continuo esercizio di contingenza e provvisorietà, di dissolvenza e intangibilità. È un’opera mai compiuta, una presenza che è allo stesso tempo assenza, un atto di Sisifo che riprende sempre di nuovo per non concludersi mai, nonostante una rinnovata energia vitale che conferma la destinazione ultima dell’umano: la traccia e la testimonianza, la speranza di un altrove e di un futuro, il desiderio – magari vano ma non per questo meno reale – dell’incontro con l’altro che emerge dal video Muro. L’umano è capace di utopia perché entrambi sono luoghi dell’altrove, della contraddizione, di una finitudine che aspira alla trascendenza e all’universalità di ciò che è comune: perché il disaccordo storico ed effettuale sul contenuto del bene e del giusto non esclude l’accordo universale sulla distinzione tra giusto e ingiusto, tra bene e male.

Carlo Altini

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