Il volume raccoglie undici saggi frutto di trent’anni di studi e ricerche che Giuseppe Cambiano ha dedicato ai diversi aspetti che caratterizzano la concezione della polis e del suo governo in Platone e Aristotele. Ne emerge una riflessione ampia e articolata che in entrambi i filosofi, attraverso un confronto costante con la realtà sociale e politica della Grecia del V secolo a.C., ed in particolare con la democrazia ateniese, si sviluppa attraverso l’analisi dei molti punti critici che caratterizzano l’esercizio del potere e le diverse soluzioni che è possibile prospettare per risolverne i problemi. La riflessione politica di Platone e Aristotele è infatti una riflessione comprensiva di tutti gli elementi che concorrono alla realizzazione del buon governo della città. Ne è un chiaro esempio il tentativo di entrambi di determinare quali siano le dimensioni ideali della polis. Stabilire il numero di cittadini ideale (o massimo) che consenta il buon governo della città non significa soltanto porre un limite al numero degli effettivi abitanti (oltre ai cittadini veri e propri occorre comprendere le rispettive famiglie, gli stranieri e gli schiavi) e stabilire le dimensione del territorio necessario al loro sostentamento, ma impone una riflessione sulla natura della cittadinanza e sulla legittimità della schiavitù. Ciò comporta che, nel caso in cui si sostenga la naturalità della schiavitù (come, pur con molte difficoltà, sostiene anche Aristotele), occorre altresì discutere in cosa si distingua la legge naturale da quella positiva istituita attraverso le convenzioni costituzionali.
Tuttavia, è evidente come il buon governo della città non dipenda soltanto dalle sue dimensioni e dalla presenza o meno degli schiavi. Di ben più difficile soluzione è infatti il problema della distribuzione del potere. Sia Platone che Aristotele sono ben consapevoli dei limiti della natura umana e, di conseguenza, della necessità di distribuire il potere attraverso un articolato sistema di rotazione delle cariche e della loro assegnazione anche attraverso il sorteggio (pratica già presente ad Atene e in altre città greche). Tuttavia, ciò non sarebbe sufficiente senza una chiara comprensione delle competenze necessarie per svolgere nel modo migliore sia il ruolo di governante che quello di governato; fermo restando che la consapevolezza della transitorietà delle cariche è già uno strumento efficace nel ricordare a chi governa che presto tornerà al ruolo di governato, e viceversa.
Due sono dunque le questioni che si pongono a questo punto. Da un lato quello della natura del legame che consente la coesione sociale e che evita la possibilità della stasis, del conflitto interno alla città, considerata come una minaccia costante (non dimenticando che per avere una concezione positiva del conflitto come presupposto alla formazione di compromessi giusti per tutte le parti in causa occorrerà attendere Machiavelli). E a questo tema si ricollega anche la riflessione sulla natura della guerra e della pace, tra le città greche e contro i barbari. Dall’altro lato si pone invece la questione della partecipazione politica, non soltanto intesa come possibilità di accesso alle cariche e di partecipazione alle assemblee, ma soprattutto relativamente alla selezione di coloro che sono chiamati al governo della città. Da questo punto di vista, pur nella differenza della riflessione condotta e delle soluzioni proposte, Platone e Aristotele condividono la medesima preoccupazione. Poiché il desiderio del filosofo platonico dovrebbe essere la contemplazione e la pratica della filosofia, egli deve essere costretto a governare contro la sua volontà e può essere convinto a farlo soltanto nella certezza che l’incarico sarà di breve durata (Platone è ovviamente consapevole che anche il filosofo può essere corrotto dal potere e la rotazione delle cariche ha lo scopo di scongiurare questo pericolo). Pur lontano dall’utopia platonica, il problema si pone anche per Aristotele. E lo stagirita propone una soluzione che, anziché indirizzarsi verso l’architettura utopica prospettata nella Repubblica di Platone, ragiona secondo termini che Cambiano definisce di psicologia sociale: «uno dei motivi di superiorità del ceto medio sarebbe dato dal fatto che i suoi componenti sono più alieni da due tendenze contrapposte, entrambe dannose per la città: la fuga dalle cariche e l’aspirazione alle cariche» (p. 75).
Tuttavia, è evidente come il buon governo della città non dipenda soltanto dalle sue dimensioni e dalla presenza o meno degli schiavi. Di ben più difficile soluzione è infatti il problema della distribuzione del potere. Sia Platone che Aristotele sono ben consapevoli dei limiti della natura umana e, di conseguenza, della necessità di distribuire il potere attraverso un articolato sistema di rotazione delle cariche e della loro assegnazione anche attraverso il sorteggio (pratica già presente ad Atene e in altre città greche). Tuttavia, ciò non sarebbe sufficiente senza una chiara comprensione delle competenze necessarie per svolgere nel modo migliore sia il ruolo di governante che quello di governato; fermo restando che la consapevolezza della transitorietà delle cariche è già uno strumento efficace nel ricordare a chi governa che presto tornerà al ruolo di governato, e viceversa.
Due sono dunque le questioni che si pongono a questo punto. Da un lato quello della natura del legame che consente la coesione sociale e che evita la possibilità della stasis, del conflitto interno alla città, considerata come una minaccia costante (non dimenticando che per avere una concezione positiva del conflitto come presupposto alla formazione di compromessi giusti per tutte le parti in causa occorrerà attendere Machiavelli). E a questo tema si ricollega anche la riflessione sulla natura della guerra e della pace, tra le città greche e contro i barbari. Dall’altro lato si pone invece la questione della partecipazione politica, non soltanto intesa come possibilità di accesso alle cariche e di partecipazione alle assemblee, ma soprattutto relativamente alla selezione di coloro che sono chiamati al governo della città. Da questo punto di vista, pur nella differenza della riflessione condotta e delle soluzioni proposte, Platone e Aristotele condividono la medesima preoccupazione. Poiché il desiderio del filosofo platonico dovrebbe essere la contemplazione e la pratica della filosofia, egli deve essere costretto a governare contro la sua volontà e può essere convinto a farlo soltanto nella certezza che l’incarico sarà di breve durata (Platone è ovviamente consapevole che anche il filosofo può essere corrotto dal potere e la rotazione delle cariche ha lo scopo di scongiurare questo pericolo). Pur lontano dall’utopia platonica, il problema si pone anche per Aristotele. E lo stagirita propone una soluzione che, anziché indirizzarsi verso l’architettura utopica prospettata nella Repubblica di Platone, ragiona secondo termini che Cambiano definisce di psicologia sociale: «uno dei motivi di superiorità del ceto medio sarebbe dato dal fatto che i suoi componenti sono più alieni da due tendenze contrapposte, entrambe dannose per la città: la fuga dalle cariche e l’aspirazione alle cariche» (p. 75).