Il Conclave. Continuità e mutamenti dal Medioevo a oggi


In un passo della sua Storia d’Italia (libro XV, cap. XV), Francesco Guicciardini scrive che nel novembre del 1523 Giulio de’ Medici, una volta eletto papa, avrebbe voluto mantenere il suo nome di battesimo. Alcuni cardinali, però, gli ricordarono che i suoi predecessori che avevano fatto quella scelta erano sopravvissuti meno di un anno, come era accaduto ad Adriano VI, il pontefice di origine olandese che Giulio stesso aveva contribuito a far eleggere nel conclave precedente. Di fronte a questo monito, Giulio cambiò idea e decise di assumere il nome di Clemente VII, forse, ricorda ancora Guicciardini, perché si avvicinava la festa del santo o forse perché in quei giorni si era manifestato “clemente” concedendo la grazia al cardinale di Volterra, Francesco Soderini, nemico suo e della sua famiglia, che aveva fatto incarcerare. Se ci spostiamo ora di quasi cinquecento anni in avanti, nel conclave del marzo 2013, indetto a seguito della rinuncia al pontificato di Benedetto XVI, ci imbattiamo in un altro episodio sui “nomi papali” degno di nota. Quando, al quinto scrutinio, Jorge Mario Bergoglio raggiunse i due terzi dei voti – la soglia sufficiente per essere eletti, stabilita dal decreto Licet de vitanda del terzo concilio lateranense del 1179 – il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, suo vicino di banco nella Sistina, per congratularsi con lui lo abbracciò, lo baciò e gli disse: «non dimenticarti dei poveri!». «E quella parola», ricordò Bergoglio qualche giorno dopo la sua elezione incontrando i rappresentanti dei media, «è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi». Quando seppero della scelta, i cardinali non gli risparmiarono «diverse battute»: alcuni gli dissero che, invece di Francesco, avrebbe dovuto chiamarsi Adriano, in ricordo delle riforme della Chiesa e del clero avviate dal papa olandese nel suo pur breve pontificato; un altro gli confidò che avrebbe preferito per lui il nome di Clemente in segno di rivalsa verso Clemente XIV, che aveva ordinato nel 1773 lo scioglimento della Compagnia di Gesù, ordine al quale appartiene papa Francesco.

Pur nella loro estrema diversità, le storie di Giulio de’ Medici e di Bergoglio mostrano come la scelta del nome rivesta un ruolo di primaria importanza nella definizione della nuova identità del cardinale che ascende al soglio pontificio e quindi rientri a pieno titolo in quel complesso di riti legati all’elezione e alle cerimonie di avvento dei papi, alla cui analisi è dedicato il libro di Paravicini Bagliani e Visceglia. Il punto di partenza del volume – che in ragione degli ambiti di interesse dei due autori si concentra soprattutto su medioevo e prima età moderna, non mancando però di proporre opportuni rimandi alla contemporaneità, a cui è dedicata nello specifico la parte conclusiva – è il documento di istituzione formale del conclave, che risale al 1274. Nel luglio di quell’anno, infatti, Gregorio X presentò al secondo concilio di Lione la costituzione Ubi periculum, poi promulgata a novembre, senza modifiche sostanziali. A convincere il papa della necessità di riformare i meccanismi di elezione era stata la più lunga vacanza della sede apostolica, quella che ebbe luogo dopo la morte, alla fine di novembre del 1268, del suo predecessore, Clemente IV. Nei quasi due anni che seguirono (Tedaldo Visconti, col nome di Gregorio X fu eletto all’inizio di settembre del 1271), i cardinali furono rinchiusi nel palazzo papale di Viterbo, di cui si arrivò anche a scoperchiare il tetto; fu loro negato l’accesso alle camere private e furono sottoposti a duri razionamenti alimentari. Per scongiurare il prolungarsi eccessivo della sede vacante, la costituzione del 1274 ordinava pertanto ai cardinali di rimanere nella città in cui era morto il pontefice e di attendervi gli assenti per dieci giorni. Trascorso questo tempo, i porporati avrebbero dovuto riunirsi nel palazzo dove il pontefice aveva abitato, facendosi accompagnare da un solo servitore, non importa se laico o chierico: «In questo stesso palazzo, inoltre, tutti [i cardinali] abitino in comune una sola sala, senza pareti intermedie o altro tendaggio; questa sala, salvo un libero passaggio ad una stanza separata, sia chiusa da ogni parte affinché nessuno possa entrare o uscire da essa». Il collegamento con l’esterno era assicurato solo da una finestra, attraverso la quale dovevano essere introdotti i pasti. Se entro tre giorni i cardinali non avessero fornito un pastore alla Chiesa, avrebbero dovuto accontentarsi per i cinque giorni successivi di ricevere non più di un piatto a pranzo e a cena. Dopo questo ulteriore periodo, il regime alimentare era destinato a diventare ancora più rigido: al collegio cardinalizio bisognava somministrare soltanto pane, vino e acqua, fino a che non fosse avvenuta l’elezione. Nel periodo del conclave, inoltre, i cardinali non avrebbero dovuto percepire gli introiti della camera apostolica. Chiunque avesse infranto tali divieti sarebbe incorso ipso facto nella scomunica. Il decreto, accettato dai padri conciliari, ma evidentemente non ben accolto dai cardinali per la sua severità, fu poi confermato per ben due volte da Celestino V (una di queste poco prima della rinuncia alla carica, nel dicembre del 1294) e inserito dal suo successore, Bonifacio VIII, nel Liber Sextus. In età moderna, la regolamentazione del conclave si concentrò sul tentativo di impedire, o quantomeno limitare, tanto le elezioni simoniache e gli accordi tra gruppi di potere, quanto le ingerenze degli stati europei. Il vero punto di svolta si ebbe comunque con le due bolle di Gregorio XV, Aeterni Patris Filius (novembre 1621) e Decet Romanum Pontificem (marzo 1622), che fissavano con precisione le fasi dello scrutinio, una delle tre modalità di elezione che si erano consolidate durante il medioevo, accanto al compromesso e all’acclamazione. Nei documenti si davano indicazioni puntuali non solo sul cerimoniale che precedeva il conclave, ma anche sulla preparazione delle schede (in particolare, il carattere da utilizzare nella scrittura e il sigillo da apporvi), sulla loro deposizione nel calice, sul giuramento dei cardinali, sulla pubblicazione dei risultati e sulla combustione dei voti. Il tutto per assicurare la massima segretezza alle scelte individuali. La legislazione gregoriana avrebbe avuto lunga vita, conoscendo numerosi commenti e rimanendo nella sostanza valida fino al Novecento, anche se la possibilità di conseguire gli scopi per i quali era stata emanata non tardò a rivelarsi illusoria.

Un discorso a parte meritano i saccheggi e le depredazioni che, subito dopo il conclave o quando addirittura questo non era ancora terminato, prendevano di mira il palazzo apostolico o la domus privata nella quale aveva abitato il neoeletto. Si trattava di pratiche la cui origine risaliva alle spoliazioni dei beni dei vescovi da parte dei chierici, la cui diffusione è testimoniata fin da epoca antica, come dimostra il canone del concilio di Calcedonia del 451 in cui si minacciava di degradazione chiunque avesse sottratto i beni del vescovo defunto. A partire da una ricca storiografia, che negli ultimi decenni ha compiuto notevoli passi in avanti sul tema, Paravicini Bagliani e Visceglia rilevano la polisemia del fenomeno, mettendo in evidenza le molteplici componenti che lo caratterizzano. Anzitutto, la dimensione materiale, legata all’appropriazione di beni di immediata utilità o con un indubbio valore economico. In uno dei saccheggi meglio documentati, quello avvenuto a Roma nel 1378, durante la contrastata elezione di Urbano VI, i testimoni oculari parlano di una ricca refurtiva, consistente in oro, argento, manoscritti e indumenti. Pare inoltre che in quell’occasione i saccheggiatori fossero riusciti a introdursi nella cantina e nella dispensa papale, impossessandosi delle scorte di carne e pesce lì conservate (un dato da non sottovalutare per la storia dell’alimentazione del tempo). Vi è poi da considerare la dimensione sociopolitica. Nelle fonti, i partecipanti ai saccheggi sono spesso definiti con termini vaghi e chiaramente dispregiativi, quali populus, turba, plebs, a indicare la loro provenienza da strati infimi della società, dediti alla violenza e alla delinquenza. In realtà, gli studi di Andreas Rehberg hanno mostrato il ruolo che in queste azioni rivestivano artigiani, piccoli mercanti, membri degli organi istituzionali e amministrativi del comune, nonché gruppi di giovani provenienti dai ceti medio-alti della città, spesso assoldati da chi aveva il compito di mantenere l’ordine pubblico e dalle famiglie nobiliari romane. Altrettanto rilevante pare il ruolo dei chierici: curiosa, ad esempio, è la notizia secondo la quale, sempre nel 1378, il cardinale fiorentino Pietro Corsini si impossessò di un reliquario appartenuto al papa defunto, Gregorio XI, che in seguito fu invitato pubblicamente, e con suo disappunto, a restituire. Occorre tener conto poi della dimensione giuridica. Nel tentativo di reprimere le razzie, numerosi erano gli editti e i bandi emanati dalle istituzioni ecclesiastiche e laiche, così come numerose erano le condanne, a cui però raramente si dava esecuzione. A prevalere, infatti, era l’idea che il saccheggio fosse un’«usanza», un «costume» o una «turpe consuetudine», come la definisce Enea Silvio Piccolomini nei suoi Commentarii, riprovevole quanto si voleva, ma ad ogni modo da inscrivere nell’eccezionalità del momento apertosi con la morte del papa. Spesso, pertanto, ci si limitava a chiedere la restituzione del maltolto dietro il pagamento di un compenso e si tentava di codificare e regolamentare il fenomeno, come dimostrano le suppliche collettive sottoposte dai cardinali al nuovo papa (note come rotuli conclavis o rotuli conclavistarum), che riguardavano sia privilegi e benefici ecclesiastici, sia regalie di valore. Decisiva è infine la dimensione simbolica. Attraverso il furto dei suoi beni, si poteva segnalare l’accesso del cardinale a una carica così prestigiosa, si poteva reclamare una forma di partecipazione del popolo alla sua elezione o ancora si poteva sottolineare l’insofferenza verso la politica del papa defunto, come accadde nell’agosto 1559 alla notizia del decesso di Paolo IV. Di fronte all’interpretazione di questi comportamenti, in cui non mancavano tratti che si definirebbero xenofobi (si pensi alle violenze che si scatenarono nel 1378 contro gli «ultramontani», rei secondo il popolo romano di aver usurpato la cattedra petrina con il trasferimento della Curia ad Avignone), resta valido l’invito alla prudenza formulato da Carlo Ginzburg in un pionieristico articolo apparso su «Quaderni storici» nel 1987 con il titolo di Saccheggi rituali. Premesse a una ricerca in corso. Lì Ginzburg poneva l’accento sui rischi legati all’utilizzo non avvertito di categorie interpretative d’origine antropologica, come quella di «rito di passaggio», mettendo in guardia contro pericolosi cortocircuiti tra «universi culturali» troppo differenti e distanti tra loro. Al di là dei dibattiti sul carattere rituale di tali manifestazioni, quello che colpisce nei saccheggi, nell’imposizione del nome e in tutte le altre fasi che caratterizzano l’elezione e l’insediamento del papa è la permanenza sul lungo periodo di un insieme di processi che hanno come oggetto il suo «corpo» e che si fondano e al tempo stesso alimentano una costante dialettica tra glorificazione e richiamo alla caducità.

Dati aggiuntivi

Autore
Anno pubblicazione 2018
Recensito da
Anno recensione 2019
ISBN 9788833130262
Comune Roma
Pagine 311
Editore