Il grande antropologo "eretico", allievo di Georges Balandier, si interroga, in un agile volume costituto da saggi solo apparentemente eterogenei, sullo spazio occupato dalla sua disciplina nell’ambito delle scienze sociali, che si è molto dilatato negli ultimi decenni, ben al di là dei limiti geografici e di oggetto (con riferimento alle culture marginali o "esotiche") assegnati all’antropologia fin dal suo sorgere. Il risultato di tale analisi costituisce un’impietosa critica rivolta non agli esiti delle ricerche sul campo, ma all’ideologia sottesa al lavoro di gran parte degli antropologi sociali anglosassoni e di quelli francofoni discepoli dello strutturalismo di Claude Lévi-Strauss. Per Amselle qui emergono alcuni elementi problematici. Pur assumendo a oggetto di studio società plasmate dai colonizzatori, nei decenni centrali del Novecento l’antropologia si è mossa, in un’ottica funzionalista e antistoricistica, alla ricerca dei tratti caratterizzanti una pretesa "omogeneità precoloniale" e "verginità" dei sistemi economici, parentali, mitico-simbolici delle popolazioni colonizzate. Essa ha a lungo privilegiato una spiegazione "endogena" delle trasformazioni sociali, come variazioni tipologiche su un unico spartito, trascurando l’incidenza di ciò che proveniva dall’esterno (le influenze arabiche sulle culture dell’Africa orientale, ad esempio). Ciò è avvenuto anche in nome dell’indifferenza dell’antropologo "tradizionale" per temi, come le trasformazioni produttive e sociali, ritenuti oggetto dell’economia politica, della sociologia e della storia. Amselle ritiene a tal proposito che sia giunto il tempo di una maggiore integrazione tra le scienze umane superando steccati disciplinari ormai privi di senso. Il "primitivismo", qui oggetto di denuncia, ha infatti condotto a una visione negativa di ogni forma di "meticciato": per esempio, un antropologo di valore come Colin Turnbull, che ha esercitato anche una grande influenza mediatica, ha proposto un’immagine degli Mbuti ancora incorrotta e contrapposta agli Ik ugandesi, la cui cultura, società (e umanità) sarebbero ormai irrimediabilmente in decadenza a causa del contatto con la "modernità". Anche i promotori delle lotte indigeniste degli ultimi due decenni appaiono paradossalmente vittime "da sinistra" di una forma di esaltazione del primitivo e di un ritorno a ciò che è ancestrale in nome della tutela di una forma sociale di "biodiversità" di taglio naturalistico. Il concetto di "autoctonia" appare in tal senso ambiguo, oscillante tra "primitiva occupazione di un territorio" e "oppressione" da parte di etnie maggioritarie, tanto da essere applicato dalle organizzazioni internazionali in forma differenziata.