Nel 1976 la rivista «Concilium» dedicava un intero fascicolo alla questione della donna nella Chiesa. Tra i numerosi interventi si segnalava quello della teologa americana Rosemary R. Ruether, studiosa del pensiero patristico e dell’idea messianica, che nel suo saggio si occupava del rapporto tra donne e sacerdozio.
Il discorso di Ruether prendeva le mosse da Paolo di Tarso e dal «paradosso» che caratterizzava la sua concezione delle donne. Sulla base del suo «radicalismo teologico» Paolo era infatti portato a riconoscere loro un ruolo di primo piano nelle comunità cristiane; al tempo stesso, però, il suo «conservatorismo sociale» lo spingeva a relegarle in una condizione di subordinazione e di inferiorità nella sfera familiare e in quella pubblica. Secondo Ruether la convinzione paolina avrebbe avuto effetti duraturi che solo il liberalismo religioso dell’Ottocento sarebbe riuscito a scalfire, iniziando ad affermare un nuovo ordine terreno e spirituale. Nonostante i notevoli passi in avanti, però, nel momento in cui Ruether scriveva, il clero si trovava di fronte a una radicale alternativa: rimanere ancorato a una visione patriarcale, ormai anacronistica, o affrontare la relazione tra uomo e donna in modo nuovo, intendendo il sacerdozio non come esercizio del potere, ma come servizio reciproco e come possibile luogo di incontro e di comunione tra i sessi.
In quello stesso 1976, anche per rispondere alle numerose sollecitazioni provenienti dall’ambiente teologico, la Congregazione per la dottrina della fede ribadiva che la Chiesa non si considerava autorizzata ad ammettere le donne all’ordinazione sacerdotale. La decisione era fondata su due motivazioni principali: da una parte, l’esempio di Cristo, che aveva affidato il ministero apostolico ai Dodici e non alle donne della sequela; dall’altra, una tradizione secolare legata all’esclusione delle donne dall’ufficio sacerdotale, tradizione a cui erano rimaste fedeli le chiese d’Oriente e d’Occidente.
Dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso la questione del sacerdozio femminile non ha smesso di essere discussa dentro e fuori la Chiesa, assumendo spesso toni polemici. Il problema è affrontato anche in questo recente volume di Lucetta Scaraffia, che prende le mosse dalla partecipazione della studiosa come uditrice al sinodo dei vescovi dedicato alla famiglia, svoltosi in Vaticano nell’ottobre del 2015. Scaraffia ammette la centralità del tema – che segna uno dei punti di maggior distanza tra le conquiste civili delle società occidentali e il mondo ecclesiastico, ancora in larga maggioranza maschile – ma è convinta che il processo di emancipazione delle donne non passi necessariamente attraverso l’ordinazione. Al contrario l’accesso al sacerdozio potrebbe rivelarsi uno strumento controproducente, di omologazione coatta tra i sessi e, per così dire, di mascolinizzazione forzata.
La strada per la partecipazione femminile alle questioni della vita della Chiesa è invece legata dalla rivendicazione della differenza di genere a partire dall’idea secondo la quale la reale uguaglianza degli appartenenti alla comunità cristiana si fonda sull’essere figli di Dio e sull’affermazione dell’unicità della vocazione di ciascuno. Il riconoscimento della differenza non implica affatto l’accettazione dell’esistenza di una gerarchia tra uomo e donna, ma al contrario l’esaltazione di quei valori che sanciscono la singolarità della persona, soprattutto da un punto di vista etico, e ne consentono al tempo stesso la promozione sociale. Per Scaraffia il maggiore ostacolo allo sviluppo di questo tipo di riflessione risiede nel fatto che proprio la Chiesa nel corso del Novecento non ha mai definito in modo chiaro in che cosa consiste la differenza femminile e non ha mai sviluppato un pensiero autonomo e critico su quelle materie che invece avrebbero potuto contribuire a tale definizione (sessualità, procreazione, maternità, solo per citarne alcune). A parte i casi emblematici delle encicliche Casti connubii (1930) e Humanae vitae (1968), ci si è limitati troppo spesso a prese di posizione occasionali, legate a momenti di scontro, e più di rado di dialogo, con la società secolarizzata, finendo di fatto con l’escludere le donne da incarichi decisionali e con il sottovalutare quella «rivoluzione culturale» di cui esse sono state fautrici negli ultimi decenni.
Tale rivoluzione ha coinvolto anzitutto l’esegesi biblica, attraverso l’introduzione di un nuovo modo di interpretare le Scritture che ha messo in evidenza il ruolo tutt’altro che marginale svolto dalle donne nei racconti evangelici. Ha riguardato, quindi, gli studi storici, che hanno portato alla riscoperta delle molteplici forme assunte dal protagonismo femminile nella Chiesa; infine, la spiritualità, grazie a esperienze religiose di grande rilevanza e intensità, come quelle nel ventesimo secolo di Edith Stein, Adrienne von Speyr e Simone Weil, a cui Scaraffia dedica attente riflessioni.
A fronte di questa straordinaria ricchezza intellettuale e religiosa, le gerarchie ecclesiastiche hanno manifestato aperture, anche significative, verso le donne. Basti pensare alla proclamazione a Dottori della Chiesa di Teresa di Gesù e Caterina da Siena da parte di Paolo VI nel 1970, di Teresa di Lisieux da parte di Giovanni Paolo II nel 1997 e di Ildegarda di Bingen per volontà di Benedetto XVI nel 2012. Tuttavia, la posizione prevalente, al centro come alla periferia, è stata quella di una relativa emarginazione delle donne. Una posizione che sembra contraddire non solo il loro esemplare impegno apostolico e missionario, ma anche la storia stessa del cristianesimo. Secondo l’autrice, infatti, è soprattutto la scarsa conoscenza della storia, sia tra i credenti sia tra i laici, ad aver impedito di comprendere fino in fondo l’importanza delle novità strutturali che il movimento cristiano è riuscito a determinare nella società, a volte in modo consapevole, altre al di là delle proprie intenzioni.
Tra queste trasformazioni, molte sono quelle che riguardano proprio le donne. Scaraffia ricorda ad esempio la possibilità di intraprendere la vita religiosa e raggiungere la santità, la rivalutazione della dimensione corporea sancita dall’incarnazione di Cristo, e il riconoscimento di pari diritti e doveri tra i coniugi all’interno dell’istituzione matrimoniale. È solo recuperando tale prospettiva storica che si potrà valutare in modo più sereno l’evoluzione del rapporto tra religione e donne e apprezzare così il contributo determinante fornito da queste ultime alla costruzione della tradizione cristiana.
Il discorso di Ruether prendeva le mosse da Paolo di Tarso e dal «paradosso» che caratterizzava la sua concezione delle donne. Sulla base del suo «radicalismo teologico» Paolo era infatti portato a riconoscere loro un ruolo di primo piano nelle comunità cristiane; al tempo stesso, però, il suo «conservatorismo sociale» lo spingeva a relegarle in una condizione di subordinazione e di inferiorità nella sfera familiare e in quella pubblica. Secondo Ruether la convinzione paolina avrebbe avuto effetti duraturi che solo il liberalismo religioso dell’Ottocento sarebbe riuscito a scalfire, iniziando ad affermare un nuovo ordine terreno e spirituale. Nonostante i notevoli passi in avanti, però, nel momento in cui Ruether scriveva, il clero si trovava di fronte a una radicale alternativa: rimanere ancorato a una visione patriarcale, ormai anacronistica, o affrontare la relazione tra uomo e donna in modo nuovo, intendendo il sacerdozio non come esercizio del potere, ma come servizio reciproco e come possibile luogo di incontro e di comunione tra i sessi.
In quello stesso 1976, anche per rispondere alle numerose sollecitazioni provenienti dall’ambiente teologico, la Congregazione per la dottrina della fede ribadiva che la Chiesa non si considerava autorizzata ad ammettere le donne all’ordinazione sacerdotale. La decisione era fondata su due motivazioni principali: da una parte, l’esempio di Cristo, che aveva affidato il ministero apostolico ai Dodici e non alle donne della sequela; dall’altra, una tradizione secolare legata all’esclusione delle donne dall’ufficio sacerdotale, tradizione a cui erano rimaste fedeli le chiese d’Oriente e d’Occidente.
Dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso la questione del sacerdozio femminile non ha smesso di essere discussa dentro e fuori la Chiesa, assumendo spesso toni polemici. Il problema è affrontato anche in questo recente volume di Lucetta Scaraffia, che prende le mosse dalla partecipazione della studiosa come uditrice al sinodo dei vescovi dedicato alla famiglia, svoltosi in Vaticano nell’ottobre del 2015. Scaraffia ammette la centralità del tema – che segna uno dei punti di maggior distanza tra le conquiste civili delle società occidentali e il mondo ecclesiastico, ancora in larga maggioranza maschile – ma è convinta che il processo di emancipazione delle donne non passi necessariamente attraverso l’ordinazione. Al contrario l’accesso al sacerdozio potrebbe rivelarsi uno strumento controproducente, di omologazione coatta tra i sessi e, per così dire, di mascolinizzazione forzata.
La strada per la partecipazione femminile alle questioni della vita della Chiesa è invece legata dalla rivendicazione della differenza di genere a partire dall’idea secondo la quale la reale uguaglianza degli appartenenti alla comunità cristiana si fonda sull’essere figli di Dio e sull’affermazione dell’unicità della vocazione di ciascuno. Il riconoscimento della differenza non implica affatto l’accettazione dell’esistenza di una gerarchia tra uomo e donna, ma al contrario l’esaltazione di quei valori che sanciscono la singolarità della persona, soprattutto da un punto di vista etico, e ne consentono al tempo stesso la promozione sociale. Per Scaraffia il maggiore ostacolo allo sviluppo di questo tipo di riflessione risiede nel fatto che proprio la Chiesa nel corso del Novecento non ha mai definito in modo chiaro in che cosa consiste la differenza femminile e non ha mai sviluppato un pensiero autonomo e critico su quelle materie che invece avrebbero potuto contribuire a tale definizione (sessualità, procreazione, maternità, solo per citarne alcune). A parte i casi emblematici delle encicliche Casti connubii (1930) e Humanae vitae (1968), ci si è limitati troppo spesso a prese di posizione occasionali, legate a momenti di scontro, e più di rado di dialogo, con la società secolarizzata, finendo di fatto con l’escludere le donne da incarichi decisionali e con il sottovalutare quella «rivoluzione culturale» di cui esse sono state fautrici negli ultimi decenni.
Tale rivoluzione ha coinvolto anzitutto l’esegesi biblica, attraverso l’introduzione di un nuovo modo di interpretare le Scritture che ha messo in evidenza il ruolo tutt’altro che marginale svolto dalle donne nei racconti evangelici. Ha riguardato, quindi, gli studi storici, che hanno portato alla riscoperta delle molteplici forme assunte dal protagonismo femminile nella Chiesa; infine, la spiritualità, grazie a esperienze religiose di grande rilevanza e intensità, come quelle nel ventesimo secolo di Edith Stein, Adrienne von Speyr e Simone Weil, a cui Scaraffia dedica attente riflessioni.
A fronte di questa straordinaria ricchezza intellettuale e religiosa, le gerarchie ecclesiastiche hanno manifestato aperture, anche significative, verso le donne. Basti pensare alla proclamazione a Dottori della Chiesa di Teresa di Gesù e Caterina da Siena da parte di Paolo VI nel 1970, di Teresa di Lisieux da parte di Giovanni Paolo II nel 1997 e di Ildegarda di Bingen per volontà di Benedetto XVI nel 2012. Tuttavia, la posizione prevalente, al centro come alla periferia, è stata quella di una relativa emarginazione delle donne. Una posizione che sembra contraddire non solo il loro esemplare impegno apostolico e missionario, ma anche la storia stessa del cristianesimo. Secondo l’autrice, infatti, è soprattutto la scarsa conoscenza della storia, sia tra i credenti sia tra i laici, ad aver impedito di comprendere fino in fondo l’importanza delle novità strutturali che il movimento cristiano è riuscito a determinare nella società, a volte in modo consapevole, altre al di là delle proprie intenzioni.
Tra queste trasformazioni, molte sono quelle che riguardano proprio le donne. Scaraffia ricorda ad esempio la possibilità di intraprendere la vita religiosa e raggiungere la santità, la rivalutazione della dimensione corporea sancita dall’incarnazione di Cristo, e il riconoscimento di pari diritti e doveri tra i coniugi all’interno dell’istituzione matrimoniale. È solo recuperando tale prospettiva storica che si potrà valutare in modo più sereno l’evoluzione del rapporto tra religione e donne e apprezzare così il contributo determinante fornito da queste ultime alla costruzione della tradizione cristiana.