La guerra di Dio

Religione e nazionalismo nella Grande Guerra


Per quanto la Grande Guerra non sia stata una guerra di religione, gli Stati nazionali si sono avvalsi a piene mani di argomentazioni e dottrine riconducibili alla sfera religiosa, con il sostegno decisivo di molte delle principali autorità cristiane cattoliche, ortodosse e protestanti-riformate. È la tesi sostenuta da Nicolao Merker ne La Guerra di Dio. Religione e nazionalismo nella Grande Guerra, facendo riferimento a una documentazione storica di eccezionale varietà e ampiezza. L’opera è uno studio comparativo del modo in cui il Dio cristiano è stato invocato dalle autorità civili e confessionali di tutta Europa come garante della vittoria della sacra causa della Nazione. 

Merker mostra quanto la propaganda militare fosse intrisa, su tutti i fronti, di contenuti fideistici: nel processo di teologizzazione degli Stati nazionali e di politicizzazione delle confessioni religiose, è Dio stesso che, per voce delle autorità politiche, dei vescovi e dei cappellani militari in trincea, chiama alle armi per la difesa della patria. La prospettiva transnazionale adottata fa risaltare il conflitto tra le pretese universaliste del monoteismo cristiano e il richiamo particolarista degli Stati nazionali europei, così evidente nel Gott mit Uns inciso sulle divise prussiane fin dal 1871. Fa da sfondo la teologia militare elaborata da personaggi come il generale Friedrich von Bernhardi, secondo la quale la guerra purifica i popoli e ne garantisce l’elevazione spirituale e il miglioramento razziale. È una teologia articolata, oltre che diffusa su tutti i livelli, in accordo alla quale anche i santi combattono come camerati accanto ai vivi, e ai nuovi nati viene dato il nome dei caduti, affinché propaghino, con il loro sangue fresco, il corpus mysticum della nazione. Si va alla guerra per Imitatio Christi: per emularne, a seconda dei casi, o il trionfo di chi porta «non la pace ma la spada» (Mt 10,34), oppure il santo sacrificio. Al di là delle differenze specifiche tra le varie confessioni, Merker evidenzia infatti come le dottrine interventiste oscillino tra due tendenze: da un lato, celebrano la guerra come terribile medicina e «sola igiene del mondo», capace di evitare la stagnazione dei popoli e la corruzione dei costumi; dall’altro, invitano a pregare Dio perché la guerra, flagello necessario e comunque non evitabile da decisioni umane, finisca presto. 
In entrambi i casi, nelle prediche e nelle orazioni di vescovi e cappellani militari le volontà individuali sono sottomesse all’incedere di grandi entità collettive, espressione della Provvidenza, alle quali non si può che obbedire con devozione e fatalismo. A questo riguardo, molti intellettuali tra i più influenti dell’epoca sono tutt’altro che esenti da responsabilità: Max Scheler è in prima fila nel sostenere che la vera fucina delle nazioni è la guerra, strumento divino, e inevitabilmente «Dio sta dalla parte dei battaglioni più forti». Un tema di fondo del libro è il conflitto tra i presupposti metafisici delle teologie militari e l’esperienza empirica maturata sul campo di battaglia: come si può giustificare la sconfitta di un battaglione alla cui testa marcia l’Onnipotente o il Redentore? Le ipotesi con cui i devoti tentano di rispondere a questa domanda insistono alternativamente sull’imperscrutabilità della volontà divina oppure sulla scarsa devozione dei popoli, che incorrono perciò giustamente nella punizione divina. L’empirico e il trascendente sono, volta per volta, inscindibilmente legati o incommensurabilmente distanti: secondo le occorrenze, la sconfitta è dovuta all’intervento diretto di Dio per riaffermare la sua giustizia, oppure alla sua abissale lontananza dalle misere vicende umane. Nel resoconto di Merker sono rarissime le testimonianze di coloro che si avvedono di come la guerra al fronte perverta il senso morale e stordisca le coscienze. 
Quando il discorso religioso è calato nell’inumanità della vita in trincea, luogo per eccellenza della radicalizzazione e della “sospensione dell’incredulità”, fioriscono le superstizioni e i resoconti allucinati di miracoli, apparizioni e eventi formidabili. In questo sono complici i cappellani militari, che traducono e adattano all’empiria le metafisiche elaborate altrove, convincendo i soldati che Dio, generale supremo, li osserva e giudica anche quando i diretti superiori sono distratti; un Dio che, tra l’altro, fornisce materialmente le armi, come emerge nelle pastorali della Carinzia che auspicano che il bronzo delle campane delle chiese venga fuso per farne cannoni, «uno scopo veramente santo». Nella sua indagine delle mentalità collettive Merker si sofferma inoltre sul modo in cui le varie nazioni hanno recuperato e reinventato le proprie identità storiche, soprattutto in contrapposizione con le identità altrui: ritornano dunque temi classici come quello degli «inglesi utilitaristi, mercanti e bottegai», la cui superficialità è incomparabile con la profondità dello spirito germanico, intimamente religioso e in quanto tale genuinamente cristiano; uno spirito germanico che è invece barbaro e senza Dio secondo i cattolici francesi, dato che, dopo Lutero e gli idealisti romantici, i tedeschi hanno rifiutato qualsiasi Principio superiore; francesi che, d’altronde, sono per loro stessa natura ipocriti, immorali e dissoluti, oltre che politicamente ordinati secondo un regime radicale e democratico contrario alla legge divina. 
A ciò fa da corollario tutto il repertorio pseudo-scientifico frenologico e razzista, da sempre utilizzato per la stigmatizzazione del nemico, attraverso cui ogni nazione giustifica la propria superiorità rispetto alla barbarie dell’altro. Man mano che la guerra si prolunga, e che le strade della Provvidenza si fanno più misteriose e imperscrutabili, diventano sempre più insistenti i richiami alla mistica del sacrificio. Al fatalismo fiducioso delle origini, dettato dalla superiorità della propria nazione che la condurrà inesorabilmente alla vittoria, si sostituisce via via la rassegnazione davanti all’insensatezza del conflitto e della vita stessa, follia universale e campo di morte: una disposizione d’animo a cui attingeranno a piene mani i demagoghi del dopoguerra. Ritorna inoltre in conclusione un tema di lunghissima durata, ovvero la teoria della guerra giusta come giustificazione dei conflitti militari: quando la propria lotta è intesa come quella del Bene che si difende dalle forze del Male, oppure è finalizzata all’instaurazione di un simulacro della Città di Dio su questa terra, diventano evidenti tutti i problemi sollevati da ogni tentativo di universalizzazione del proprio Credo, religioso o nazionale che sia.

Dati aggiuntivi

Autore
  • Nicolao Merker

    Professore di Storia della filosofia moderna ? Università di Roma ?La Sapienza?

Anno pubblicazione 2015
Recensito da
Anno recensione 2015
ISBN 9788843075126
Comune Roma
Pagine 231
Editore