Leon Battista Alberti


I due saggi (Per un ritratto e Miseria e grandezza dell’uomo) che nel 1975 Eugenio Garin dedicò a Leon Battista Alberti nel libro Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, ora ripubblicati nella collana “Variazioni” dalle Edizioni della Scuola Normale Superiore di Pisa, costituiscono una testimonianza esemplare dell’ultima fase della sua ricerca.

Come scrive Michele Ciliberto nell’introduzione, negli anni Settanta il tema dell’«umanesimo civile», che aveva dominato gli studi di Garin nei decenni precedenti, lascia gradualmente il posto a una visione del Rinascimento come età cupa e pessimistica, segnata dalla tensione tra l’utopia e il disincanto. Nella riflessione di Garin, Alberti assume sempre più un ruolo centrale, mentre si fa più defilata la figura di Pico della Mirandola: all’elogio della dignitas hominis e dell’homo faber si sostituisce la constatazione dell’insensatezza della condizione umana, che si esprime talvolta con toni nichilistici. Il mito di Adamo, a cui Dio concede la libertà di scegliersi la propria vita, si rovescia nella parodia albertiana del Momus, secondo la quale gli uomini sono invitati dal demiurgo a scegliersi la maschera di fango che più li aggrada, con tutte le conseguenze grottesche e al tempo stesso tragiche che ne conseguono. Le motivazioni di questo ripensamento di Garin, in molti punti radicale, sono essenzialmente due. La prima è legata all’uso delle fonti: piuttosto che sui Libri della famiglia e sul De iciarchia, sui quali si era soffermato in passato, Garin preferisce concentrarsi sul Momus e sulle Intercenali. Non si deve dimenticare che nel 1964 lo stesso Garin aveva scoperto in un manoscritto conservato nella Biblioteca del Convento di San Domenico di Pistoia il testo di venticinque Intercenali inedite, una delle quali, intitolata Somnium e dedicata al racconto del viaggio del protagonista Libripeta nel «paese del sogno», è riportata in appendice al volume.

La seconda è una ragione di carattere storico e biografico: nei due saggi si riflette la crescente sfiducia nella possibilità di realizzare nel concreto un ideale di vita civile.  A entrare in crisi, sostiene Ciliberto, non è «solamente una vicenda individuale, ma un intero mondo spirituale nel quale esperienze personali come le sue avevano trovato significato, dando un senso preciso al suo lavoro e, in fondo, a tutta la sua storia umana e intellettuale». Per Garin l’opera di Alberti si presenta come una grande meditazione morale, dominata da una «sfiducia amara», sulla miseria e sull’assurdità dell’esistenza, sulla caducità del mondo, sull’assenza di un disegno provvidenziale, sulla malvagità e l’infelicità dell’uomo. La vita è descritta come una sequela di eventi in balìa di una fortuna cieca, in cui l’unica certezza è la morte – un tema che attraversa come un filo rosso tutta la produzione albertiana. Questa visione trae origine da un’esperienza personale particolarmente dolorosa, l’essere figlio illegittimo di una delle maggiori famiglie della borghesia mercantile fiorentina. Nonostante lo stesso Alberti abbia insistito spesso sul rapporto ambiguo e difficile con la sua famiglia, quest’aspetto è stato trascurato, anzi censurato dalla critica, per usare le parole di Garin.

Forse per evitare l’accusa di psicologismo, gli interpreti hanno preferito avallare l’immagine dell’Alberti scienziato e artista rinascimentale, impegnato a contrapporre la ragione all’autorità, a celebrare gli studia humanitatis come strumento di convivenza civile, a imitare gli scrittori antichi con i suoi virtuosismi formali e a esaltare l’uomo attivo, artefice del proprio mondo. Si tendeva così a leggere il pensiero albertiano come uno svolgimento lineare, seppur punteggiato da momenti di crisi, nel quale le inquietudini giovanili si sarebbero stemperate con il passare del tempo fino a risolversi nella pacatezza e nella misura del De re aedificatoria e del De iciarchia. In realtà, ribatte Garin, non ci si è accorti che la virtù di cui parla Alberti è ben diversa da quella di Machiavelli: l’uomo virtuoso non è colui che vince gli eventi, ma il saggio che con la ragione domina le passioni dell’animo. Non si è compreso inoltre che al centro dell’opera di Alberti c’è una «tensione aspra» tra la ragione e la follia. La sua forza sta proprio nella capacità di esasperare tale contrasto, riuscendo a tenere assieme i due poli dell’opposizione: questi coesistono nella loro contraddittorietà, perché è la vita stessa a essere contraddittoria. Ridurre la dialettica albertiana all’immagine pacificata della virtù che doma la fortuna significa per Garin non comprendere veramente Alberti e privare il Quattrocento di «una delle figure più straordinarie di quel secolo straordinario».

Dati aggiuntivi

Autore
Anno pubblicazione 2013
Recensito da
Anno recensione 2013
ISBN 978-88-7642-467-0
Comune Pisa
Pagine 115
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