Ripensare la politica. Immagini del possibile e dell’alterità


Il volume – che raccoglie un’introduzione di Emanuele Profumi, quattordici saggi e una scelta antologica di brani di Aldo Capitini dedicati alla questione del potere – intende sia formulare una critica delle istituzioni e delle pratiche politiche del presente sia avanzare alcune proposte di rinnovamento della sfera politica, soprattutto del regime democratico, adottando una prospettiva filosofica. Uno dei punti su cui si insiste estesamente nella prima parte del libro, con particolare evidenza nei saggi di Alfonso M. Iacono e Ubaldo Fadini, è il riconoscimento del ruolo di quell’insieme di processi che in un lucidissimo saggio pubblicato nel 2009 Mark Fisher ha definito “realismo capitalista” (il volumetto è stato tradotto in italiano nel 2018, dopo il suicidio del suo autore), ovvero la convinzione, sempre più diffusa e accettata a tutti i livelli, secondo la quale il capitalismo è l’unico sistema economico e insieme sociopolitico oggi praticabile e che quindi ad esso non vi è nessuna alternativa possibile, secondo un noto adagio dell’era thatcheriana. Proprio partendo dalla riflessione di Fisher, Iacono e Fadini insistono su alcuni aspetti che caratterizzerebbero le società tardocapitalistiche e che sarebbero a un tempo cause e sintomi della crisi delle democrazie odierne: la presenza di nuove forme di schiavitù e disuguaglianza; la diffusione della logica dell’aziendalismo e della prestazione, capace di contagiare anche i settori dell’educazione e della sanità; l’influenza negativa esercitata dall’instabilità economica e lavorativa sulla salute psicofisica dei cittadini, che trova espressione non solo nella solitudine, ma anche in una serie di disturbi psichici, vecchi e nuovi, dalla schizofrenia di cui già parlavano Deleuze e Guattari, all’«impotenza riflessiva», fino all’«edonismo depresso». Tutto ciò sfocia nella creazione di un nuovo regime affettivo, che lo stesso Fisher chiama «regime consentimentale», in cui è il potere a indirizzare i sentimenti dei lavoratori, a un tempo soggetti e complici dei sistemi di dominio.

Un altro dei fattori di crisi delle democrazie è individuato da Daniele Santoro nel rapporto tra l’insorgenza dei movimenti cosiddetti populistici e l’affermazione di un modello di sfera pubblica di tipo digitale, che segna un cambiamento decisivo rispetto al concetto di opinione pubblica definito da Habermas. La sfera pubblica attuale, dominata da internet, presenta infatti, secondo Santoro, un carattere ambivalente, sconosciuto in epoca moderna e per gran parte dell’età contemporanea. Se è vero che, a una lettura superficiale, i social media sembrano costituire uno spazio pubblico potenzialmente democratico e aperto a tutti, è altrettanto vero che, se si analizzano con attenzione le strutture che ne garantiscono il funzionamento, le reti sociali rivelano la loro natura di luogo eminentemente privato, caratterizzato da una gestione verticistica e monopolistica, che si riflette in una trasmissione orientata e frammentaria di dati e informazioni. Tale contraddittorietà ha evidenti conseguenze anche sulla costruzione del consenso politico, che, anziché fondarsi su una discorsività razionale, come accadeva per l’opinione pubblica habermasiana, appare legato a un’adesione non riflessiva o pre-riflessiva, fortemente condizionata dal coinvolgimento emotivo. Il prevalere della dimensione passionale e impulsiva condurrebbe al rifiuto dei corpi intermedi (anzitutto partiti e sindacati), giudicati incapaci di interpretare e rappresentare la volontà popolare, e al contempo alla riduzione della democrazia a espressione plebiscitaria della maggioranza. Tale avversione nei confronti della “vecchia” politica, delle sue pratiche e dei suoi stessi esponenti, tipica del populismo digitale, trova in modo insperato e quasi paradossale il suo alleato nella tecnocrazia, come sostiene Lluis Pla nel suo contributo. Anche i tecnici, infatti, contestano la politica, facendosi portatori di criteri di oggettività e razionalità in grado di ovviare con procedure amministrativo-burocratiche a quelle che considerano le storture derivanti dalle ideologie. Come nota Maria Antonella Galanti, talvolta è la politica stessa che può rivelarsi “antipolitica”, quando per esempio nega valore alla dimensione del conflitto sociale, quando privilegia interpretazioni non approfondite dei problemi, quando fa leva sul disincanto e sulla rassegnazione o quando disconosce l’importanza dell’utopia come possibilità di cambiamento dello statu quo.

Di fronte a questa disincantata diagnosi della contemporaneità, nella seconda parte del libro vengono avanzate alcune proposte filosofico-politiche per fronteggiare la crisi in atto. Serge Latouche torna ad affermare la necessità dell’abbandono della società della crescita e del concetto di «illimitatezza» tipico della modernità occidentale (illimitatezza nella produzione, nei consumi, negli scarti) per incoraggiare l’approdo a «una società dell’abbondanza frugale ecosocialista», modellata sulla moderazione. Per Latouche, tale progetto presenterebbe un carattere «rivoluzionario», perché pur non risolvendosi in uno scontro frontale con il capitale, confronto che si rivelerebbe con buona probabilità perdente, data la disparità delle forze in campo, consiste in una «rottura radicale del sistema sociale attuale», che Latouche chiama «capitalocene». Una rottura che si ispira al modello zapatista e a quello gandhiano, che fa riferimento alla riflessione di Castoriadis e di Ilich e che si concretizza nella messa in atto di una strategia costante di dissidenza e di resistenza: non una presa diretta del potere, ma un esercizio di controllo e di valutazione delle decisioni del governo da parte della società civile. Mentre la decrescita, sostiene Latouche, è contraria al capitalismo, così come è contraria al socialismo produttivista, essa non è affatto incompatibile con la democrazia, a patto che si tratti di una «democrazia autentica», e non della postdemocrazia con le sue derive mercantili e finanziarie. Sul rifiuto della versione minimalista della democrazia incoraggiata dal liberismo e dal liberalismo (e basata soltanto su una parvenza di Stato di diritto e sullo svolgimento di elezioni, all’apparenza, competitive) conviene anche Yves Sintomer, che auspica l’avvento di una «rivoluzione democratica», che si opponga con efficacia anche alle nuove forme di autoritarismo, alimentate dal primato dell’identità nazionale e dalla diffidenza verso lo straniero. Tale rivitalizzazione del regime democratico non dovrebbe provenire dall’azione di un singolo, di un partito o di un movimento, ma dovrebbe essere promossa da una «rete flessibile di organismi ben radicati» e dovrebbe includere nel suo programma riforme istituzionali, pratiche di disobbedienza civile, esperienze di nuovi stili di vita e individuazione di nuovi beni comuni. È necessario, prosegue Sintomer, operare anche nelle scienze politiche un global turn, simile a quello che ha coinvolto gli studi storici negli ultimi decenni. Occorre cioè operare un ridimensionamento dell’esperienza democratica che ha caratterizzato l’Occidente moderno, esperienza che si è dimostrata incapace di affrontare le gravi trasformazioni che attraversano il mondo globale, per guardare invece a un sistema politico diverso, che sappia valorizzare la partecipazione dei cittadini alle deliberazioni.

Stefano Petrucciani avanza invece l’idea di un patto cosmopolitico, che riprenda in chiave critica la tradizione contrattuale della filosofia politica moderna, riesaminandola alla luce di un contesto non più caratterizzato da un ruolo di primo piano svolto dagli Stati-nazione, ma dalla presenza di una comunità globale, ovvero di uno spazio terrestre in cui i cittadini non scelgono di stare, ma in cui sono «gettati» senza potervi in alcun modo sfuggire, legati pertanto a una sorta di «coabitazione forzata». Esiste infatti soltanto un «fuori» della comunità, il resto del cosmo, che però non è ancora accessibile, se non limitatamente. A caratterizzare questa comunità globale contemporanea è la distanza che separa produttori e destinatari delle leggi, sia perché esistono organismi sovranazionali alle cui decisioni i vecchi Stati-nazione devono attenersi; sia perché i fenomeni migratori di massa mostrano come a interi gruppi umani non è riconosciuto il diritto di contribuire alla redazione e alla scrittura delle norme, ma è associato soltanto il dovere di rispettarle, o nella maggior parte dei casi di subirle passivamente. Il patto cosmopolitico deve presentarsi dunque come un accordo tra i popoli che compongono la comunità mondiale, a partire da un principio basilare, ovvero la garanzia della sopravvivenza del genere umano considerato come un’unità plurale formata da individui. Da questo principio discendono, per Petrucciani, una serie di corollari: l’urgenza di mettere al bando i conflitti e di creare istituzioni per assicurare la convivenza pacifica tra i popoli; di preservare l’ambiente e le sue risorse; di assistere le popolazioni minacciate da povertà, carestie ed epidemie. Mentre sul principio e sui suoi corollari, nota Petrucciani, esiste una generale convergenza, non tanto nella loro applicazione concreta e nel loro rispetto, quanto nel riconoscimento della loro importanza, su altre questioni (su tutte le migrazioni e la giustizia globale) permangono forti e spesso insanabili disaccordi tra i vari attori coinvolti. Per giungere a una mediazione, bisogna riconoscere l’importanza del concetto di responsabilità condivisa, scelta che non è soltanto preferibile dal punto di vista etico, nota Petrucciani, ma anche da quello meramente utilitaristico. In un mondo sempre più intrecciato, infatti, i problemi regionali si riflettono in chiave sovranazionale e impongono il coinvolgimento e la «co-responsabilità di ciascuno per il destino di tutti». Proprio da questa constatazione occorrerebbe forse prendere le mosse per ripensare la politica e le istituzioni oggi.

Dati aggiuntivi

A cura di
Anno pubblicazione 2019
Recensito da
Anno recensione 2019
ISBN 9788846754813
Comune Pisa
Pagine 262
Editore