Streghe, sciamani, visionari. In margine a Storia notturna di Carlo Ginzburg


«I bei libri», sosteneva Proust nei suoi Carnets, «sono scritti come in una lingua straniera. Sotto ogni parola ciascuno mette il suo senso o, per lo meno, la propria immagine, che è spesso un controsenso. Ma, nei bei libri, tutti i controsensi in cui si cade sono belli». Credo che questa considerazione proustiana valga anche per il volume Storia notturna. Una decifrazione del sabba, pubblicato per la prima volta da Carlo Ginzburg nell’einaudiana “Biblioteca di cultura storica” nel 1989 e riproposto nel 2017 in una nuova edizione nella collana “Il ramo d’oro” di Adelphi, con una postfazione dell’autore. In occasione del trentennale della sua uscita, a Storia notturna è ora dedicato un volume collettaneo curato da Cora Presezzi, che trae origine dai seminari organizzati, sotto la guida di Gaetano Lettieri, tra il 2014 e il 2015 all’Università La Sapienza di Roma. I tredici saggi che compongono la raccolta – affidati in prevalenza a storici del cristianesimo, di generazioni diverse e con interessi di ricerca anche molto distanti tra loro – non intendono soltanto commentare e discutere Storia notturna, soffermandosi su alcuni aspetti particolari o su quadri di più ampio respiro, ma anche proporre nuovi sguardi sulle principali direttrici della produzione di Ginzburg. Da qui discende anche l’eterogeneità delle letture proposte: vi è chi, come Luigi Canetti, rievoca, in chiave autobiografica, l’importanza di Ginzburg, anche come docente nell’ateneo bolognese, per la propria formazione e per le proprie indagini sui fenomeni di incubazione e possessione; chi, come Sergio Botta, approfondisce l’interpretazione dello sciamanesimo nei suoi intricati rapporti tanto con Il mondo magico di de Martino, quanto con le discusse ricerche di Eliade; chi, come Marcello Musté, individua le principali fasi dell’opera storiografica di Ginzburg, riservando una specifica attenzione alle questioni di metodo. A impreziosire la silloge contribuiscono la traduzione italiana di un saggio dello stesso Ginzburg, uscito originariamente nel 2016, Viaggiare in spirito, dal Friuli alla Siberia, in cui si ricostruiscono le ragioni che lo spinsero ad approfondire le analogie tra benandanti e sciamani; e un validissimo strumento di lavoro, ovvero l’aggiornamento della bibliografia degli scritti di Ginzburg al luglio 2019.

Vorrei qui concentrarmi sul più lungo tra i saggi della raccolta, scritto da Lettieri e intitolato La strega rimossa. L’immaginario apocalittico e messianico al margine di Storia notturna. L’idea da cui muove Lettieri è che negli studi di Ginzburg, ben al di là di Storia notturna, sarebbe implicitamente all’opera la contrapposizione tra due livelli del sabba: lo strato primario e profondo, definito «sabba bianco folklorico-sciamanico», e lo strato secondario e superficiale, chiamato «sabba nero cristiano». Da una parte, lo strato primario sarebbe costituito dalle credenze condivise da gruppi popolari e marginali delle campagne dell’Italia settentrionale tra Cinquecento e Seicento, frutto di una cultura spontanea e irriflessa, credenze che si condensavano intorno a due nuclei principali già individuati da Ginzburg nei Benandanti (1966). In primo luogo, i raduni che avevano luogo la notte del giovedì delle quattro tempora e ai quali i benandanti (soprattutto uomini, che dichiaravano di essere «nati con la camicia», ossia avvolti nel sacco amniotico) si recavano in spirito, utilizzando come cavalcature animali, quali lepri e gatti, o sotto forma di farfalle e topi, dopo aver abbandonato il loro corpo come in uno stato di letargia o di morte apparente. Durante tali raduni si svolgevano battaglie, di fatto incruente, in cui i benandanti, muniti di mazze di finocchio, sfidavano streghe e stregoni, armati di canne di sorgo con l’obiettivo di contrastarne i poteri malefici e salvaguardare così la fertilità dei campi e scacciare le malie dai bambini. Un secondo filone di credenze era costituito dalla partecipazione dei benandanti (questa volta soprattutto donne, anch’esse «nate con la camicia») a processioni notturne guidate da divinità femminili, in cui i vivi si accompagnavano alle anime dei trapassati. In entrambi i casi, l’obiettivo di questi riti era garantire la prosperità delle comunità agricole di appartenenza, assicurare la continuità della vita e allontanare in una forma mite e non violenta la paura della morte. Dall’altra parte, si situa lo strato secondario del sabba, ovvero quello derivante dall’azione coercitiva e violenta messa in atto dal potere inquisitoriale, e quindi dalla cultura dotta, con l’obiettivo di interpretare le credenze popolari per mezzo di categorie teologiche, dottrinali e demonologiche. Nei loro interrogatori, gli inquisitori incalzavano, insinuavano, insistevano, ponevano domande subdole e provocatorie, forzavano le risposte degli imputati, tentando di ricondurre le loro confessioni nello schema del sabba diabolico e stregonesco, a partire da riferimenti ad esso assimilabili o comunque avvicinabili. Laddove i benandanti parlavano soltanto di estasi e voli notturni, gli inquisitori rintracciavano l’adorazione del demonio, la profanazione dei sacramenti e il ripudio della fede, con il risultato che alla fine i benandanti furono trasformati nei loro avversari, streghe e stregoni.

Secondo Lettieri, il lavoro compiuto da Ginzburg in Storia notturna consisterebbe proprio nel tentativo di rimuovere tali incrostazioni e depositi sedimentati nel tempo per giungere al nucleo sottostante, rappresentato da quel materiale folklorico, non contaminato dagli stereotipi inquisitoriali, che rimanderebbe a una religiosità naturale, spontanea e agraria. In quest’operazione, però, Ginzburg sottovaluterebbe, o meglio rimuoverebbe, l’influenza esercitata dal testo biblico, capace di agire non soltanto sulla mentalità dei giudici, ma anche su quella degli imputati. Questa rimozione sarebbe motivata «da una precomprensione ideologica, da una gramsciana fiducia nella capacità di resistenza culturale delle classi subalterne», ma assumerebbe anche un valore quasi psicoanalitico, testimoniato dalla dedica di Storia notturna a Leone e Natalia Ginzburg, genitori di Carlo. Secondo tale ipotesi, l’opera di Ginzburg recherebbe traccia di un «secolarizzato residuo messianico», una visione della storia – debitrice tanto di Benjamin quanto di Adorno – come tentativo di riconoscere alle vittime quella dignità e singolarità di soggetti che è stata loro negata mentre erano ancora in vita. Tuttavia, suggerisce Lettieri, in tal modo si rischia di trascurare il fatto che il codice biblico contiene in sé anche la possibilità di un rovesciamento dei rapporti di forza esistenti, una speranza di riscatto e redenzione da parte degli oppressi che trova ovviamente nella vicenda gesuana un momento culminante. La Bibbia non è quindi unicamente uno strumento di controllo e repressione nelle mani dei giudici, e in generale delle autorità religiose, ma deve essere ritenuto un libro «socialmente trasversale», capace di «ispirare immaginazione, desideri e sogni di emarginati, contadini, donne deboli e vessate».

Non è un caso che molti aspetti menzionati nelle deposizioni dei benandanti possano già rintracciarsi nelle immagini che popolano il Libro di Gioele, il capitolo 34 di Isaia e i capitoli 17 e 18 dell’Apocalisse giovannea, con il loro vastissimo repertorio di estasi ed effusioni dello Spirito, battaglie per la fertilità, figure mostruose, sfrenati commerci sessuali e macabre perversioni. Non meno rilevante sarebbe l’influenza esercitata dalla figura profetico-messianica di Simon Mago – peraltro oggetto del bel saggio di Cora Presezzi – presto assimilata nella letteratura cristiana al demonio. Non è detto, sostiene Lettieri, che queste immagini, spesso cariche di violenza e brutalità, siano state adottate dagli imputati nelle loro testimonianze solo sotto l’influenza della tortura e delle tecniche di interrogatorio; molto più probabilmente si deve supporre che esse facessero parte di un complesso di visioni del mondo condiviso da più strati sociali, che di volta in volta affiorava in forme complesse e spurie. Ciò consentirebbe quindi di dimostrare che il «sabba nero» non sia immediatamente e univocamente riconducibile a uno «schema inquisitoriale», ma abbia origini ben più antiche, essendo stato elaborato, almeno nei suoi aspetti fondamentali, nei primi tre secoli dell’era volgare, attraverso la combinazione di elementi presenti nell’apocalittica enochica con quelli derivanti dall’apocalittica cristiana. Lettieri propone addirittura di rovesciare la relazione tra i due livelli del sabba da lui stesso individuati: la costruzione del «sabba nero» avrebbe preceduto quella del «sabba bianco», dovuta soprattutto al lavoro ermeneutico degli studiosi moderni. Ricorrendo a una distinzione cara a Ginzburg, che la riprende a sua volta da Kenneth Pike, si potrebbe quindi assimilare il «sabba nero» a una categoria emic e il «sabba bianco» a una categoria etic. Tutto ciò renderebbe, secondo Lettieri, più labile la distanza tra il mondo culturale degli inquisitori e quello degli imputati, smentendo così l’esistenza di un’alternativa troppo rigida tra la purezza originaria della tradizione popolare e la corruzione successiva prodotta su di essa dalle classi detentrici del potere.

Al di là del motivo contingente che costituisce il cuore del saggio di Lettieri, mi sembra che, ponendo l’accento sulla complessità delle relazioni tra cultura popolare e cultura dotta, egli colga uno dei nodi centrali della traiettoria intellettuale e di ricerca di Ginzburg. Si tratta, infatti, di un tema che, pur attraversando l’interezza della produzione di Ginzburg, diventa centrale tra gli anni Sessanta e Settanta e la cui analisi può essere temporalmente compresa, volendo tracciare dei confini senza dubbio fittizi, tra due date cardine. La data di inizio è il 1961, l’anno in cui Ginzburg pubblicò, sugli «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», il suo primo articolo, Stregoneria e pietà popolare, poi raccolto nel volume Miti, emblemi, spie (1986). In quella sede, Ginzburg si soffermava sugli atti del processo istruito nel 1519 dal Sant’Uffizio modenese contro Chiara Signorini, una contadina accusata di aver praticato malefici contro la proprietaria del podere presso il quale prestava servizio, dopo esserne stata scacciata insieme a suo marito. Se, da un lato, Ginzburg affermava che giudice e imputata condividevano una «comune visione della realtà», che includeva la possibilità di contatti con il demonio; dall’altro lato, riconosceva l’esistenza di uno «iato» tra le credenze dell’uno e quelle dell’altra. L’intenzione dell’inquisitore – il processo fu condotto dal frate domenicano Bartolomeo Spina, autore di un celebre trattato demonologico – era quella di colmare per quanto possibile tale scarto, riconducendo le deposizioni di Chiara entro codici a lui familiari. La durezza degli interrogatori e le torture eseguite o minacciate condussero pertanto Chiara, non senza tentennamenti e ripensamenti, a sovrapporre alle apparizioni della Vergine, a cui fece riferimento in un primo tempo, l’adorazione del demonio e l’offerta a lui della propria anima. Nonostante ciò, l’accusata riuscì a ritagliarsi uno spazio di relativa libertà rispetto alla volontà e alle pressioni dell’inquisitore, che le permise di non far mai cenno al raduno stregonesco, il sabba. In questo saggio giovanile, composto quand’era poco più che ventenne, Ginzburg leggeva la storia di Chiara anche, ma non esclusivamente, alla luce dell’idea che la stregoneria costituisse «un’arma di difesa e di offesa nelle contese sociali»: Chiara e suo marito sarebbero ricorsi a pratiche magiche per vendicarsi dei soprusi subiti dai loro padroni. La tesi della stregoneria come rivolta sociale, che aveva trovato una sua prima formulazione nella Strega di Michelet, sarebbe stata presto accantonata dallo stesso Ginzburg a favore di un’altra pista esegetica: esaminare i processi inquisitoriali per seguire l’evoluzione concreta dei rapporti tra giudici e imputati e quindi analizzare lo «scontro tra culture diverse», secondo l’efficace espressione che si trova nella prefazione a Miti, emblemi, spie.

L’altra data di questo itinerario a cui sto accennando potrebbe essere individuata nel 1979, l’anno in cui Ginzburg firmava l’introduzione al libro di Peter Burke Cultura popolare nell’Europa moderna (in realtà il libro fu pubblicato l’anno successivo presso Mondadori). Concentrandosi in particolare sull’esperienza italiana, Ginzburg rintracciava nell’attenzione crescente per le forme della cultura popolare, che si esprimeva in iniziative diversissime destinate a pubblici altrettanto diseguali, sia il pericolo di una «moda», dagli esiti qualitativamente incerti, sia le potenzialità di un «interesse reale», certo legato alle tensioni e alle imponenti trasformazioni della società degli anni Sessanta, ma il cui terreno era stato preparato, almeno a livello nazionale, nell’immediato secondo dopoguerra con la riscoperta delle pagine di Gramsci sul folklore e con le ricerche di de Martino e di Carlo Levi. Ginzburg poneva quindi l’accento su una serie di cautele metodologiche per gli studiosi di cultura popolare: anzitutto, non limitare, in modo arbitrario, il campo di indagine a spazi geograficamente troppo ristretti e, per converso, non proporre un «comparatismo indiscriminato» tra fenomeni troppo eterogenei tra loro, col rischio di trascurare la varietà dei contesti e l’importanza degli aspetti sociali per i singoli casi. Era necessario, inoltre, tener conto della frammentarietà delle fonti, che rispecchiava i rapporti di forza storicamente dati e che peraltro era già stata segnalata da Gramsci con la sua distinzione tra «letteratura popolare» e «letteratura destinata alle classi popolari». Tutto ciò imponeva la revisione di strumenti di indagine, l’introduzione di nuovi criteri di verificabilità documentaria e di nuove tecniche di analisi: «La storia della cultura popolare», scriveva Ginzburg, «aspetta ancora i suoi Valla, i suoi Scaligero, i suoi Mabillon».

Tra queste due date sono comprese una serie di tappe fondamentali per la ricerca di Ginzburg sul tema dei dislivelli culturali, quali, per limitarsi a citarne alcune, il libro già menzionato sui Benandanti, il saggio su Folklore, magia, religione, apparso nel 1972 per il primo volume della Storia d’Italia Einaudi; il volume Il formaggio e i vermi del 1976, che si proponeva di far rivivere un «frammento» della cultura delle classi subalterne con il «caso limite» del mugnaio friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, condannato a morte dal Sant’Uffizio alla fine del Cinquecento, dopo aver subito due processi; l’intervento alla tavola rotonda “Religione e religiosità popolare”, organizzata dall’Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa; la curatela del fascicolo monografico di «Quaderni storici» del maggio-agosto 1979 dedicato alle Religioni delle classi popolari. In tutti questi interventi, Ginzburg si confrontava costantemente con quegli autori, che, pur da prospettive differenti, avevano svolto o andavano svolgendo ricognizioni sulle classi popolari, da Bachtin a Le Goff, da Hobsbawm a Le Roy Ladurie, da Foucault a Zemon Davis. Credo dunque che sia necessario ricostruire questo percorso, che potrebbe illustrare non soltanto l’itinerario di un singolo studioso, ma anche chiarire aspetti decisivi della storia intellettuale e culturale del secondo Novecento.

Dati aggiuntivi

A cura di
Anno pubblicazione 2019
Recensito da
Anno recensione 2020
ISBN 9788833132129
Comune Roma
Pagine 460
Editore