Tucidide - La guerra del Peloponneso

Letture sulla guerra

  • venerdì 10 Aprile 2015 - 17.30 e ore 21.00
Centro Culturale

Video integrale

a cura di Claudio Longhi
testi scelti da Carlo Altini
immagini a cura di Riccardo Frati
regista assistente Giacomo Pedini
con Nicola Bortolotti, Simone Francia, Lino Guanciale, Eugenio Papalia, Simone Tangolo
e con Olimpia Greco, fisarmonica

La lettura delle ore 17.30 e la replica delle ore 21 si tengono presso il Teatro della Fondazione San Carlo (via San Carlo 5, Modena).

Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, effettuabile dal 23 al 31 marzo e dal 7 al 10 aprile. Prenotazioni solo telefoniche, dalle ore 9 alle ore 19, allo 059.421240 o allo 059.421208.

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Si vide ogni genere di morte, e – come accade in simili frangenti – nulla ci fu che non si desse, ed altro ancora: il padre uccideva il figlio, i supplici venivano strappati via dai templi e subito uccisi, e alcuni morirono persino murati vivi nel tempio di Dioniso. A tal punto di crudeltà giunse questa guerra civile; e parve ancor più crudele perché fu tra le prime: in seguito ne fu sconvolto, per così dire, tutto il mondo greco; in ogni città vi erano lotte fra i capi del partito popolare, che chiedevano l’intervento di Atene, e gli oligarchi, che chiedevano quello di Sparta. E mentre in tempo di pace sarebbe mancato loro il pretesto, e neppure sarebbero stati propensi a chiamarli, in stato di guerra questi interventi, richiesti da chi intendeva prendere iniziative eversive, venivano garantiti volentieri all’una come all’altra parte in lotta al fine di nuocere agli avversari e al tempo stesso guadagnarsi alleati. Molte gravi sciagure colpirono le città lacerate dalla guerra civile, quali accadono e sempre accadranno fino a che la natura umana resterà uguale a se stessa, ma che si intensificano, si attenuano e prendono forma differente a seconda del prodursi di alterne vicende. In tempi di pace e di prosperità infatti gli Stati e i singoli individui, liberi dalla stretta di imperiose necessità, sono animati da sentimenti migliori. Ma la guerra, portando via le comodità delle consuetudini d’ogni giorno, è maestra di violenza, e rende conforme alle circostanze l’indole dei più. Nelle città dunque infuriava la guerra civile, e quelle che per qualche motivo erano giunte a questo solo più tardi, a conoscenza di ciò che altrove era già avvenuto, andavano molto più in là nell’escogitare trovate nuove e sempre peggiori con l’astuzia dei loro attacchi e il carattere inaudito delle loro vendette.
Cambiarono a piacimento il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti. L’audacia sconsiderata fu ritenuta coraggiosa lealtà verso i compagni, il prudente indugio viltà sotto una bella apparenza, la moderazione schermo alla codardia, e l’intelligenza di fronte alla complessità del reale inerzia di fronte a ogni stimolo; l’impeto frenetico fu attribuito a carattere virile, il riflettere con attenzione fu visto come un sottile pretesto per tirarsi indietro. Chi inveiva infuriato, riscuoteva sempre credito, ma chi lo contrastava, era visto con diffidenza. Chi avesse avuto fortuna in un intrigo era intelligente, chi l’avesse intuito era ancora più bravo; ma provvedere in anticipo a evitare tali maneggi significava apparire disgregatore della propria eteria, e terrorizzato dagli avversari. Insomma, chi riusciva ad anticipare qualcun altro nel macchiarsi di una colpa era oggetto di encomio, come pure chi istigava qualcuno che non ne avesse alcuna intenzione. […]
Causa di tutto ciò erano l’aspirazione al dominio per cupidigia e ambizione e le ardenti passioni che ne nascono quando si vuole vincere a tutti i costi. Infatti i capi delle fazioni cittadine, facendo uso gli uni e gli altri di parole speciose, preferendo parlare di uguaglianza di diritti politici del regime popolare, e di governo moderato dell’aristocrazia, a parole servivano lo Stato, in realtà lo consideravano alla stregua del premio di una gara; e lottando senza esclusione di colpi per poter avere il sopravvento gli uni sugli altri, essi osarono le azioni peggiori, e compirono vendette ancora più atroci, proponendosi di attuarle non entro i limiti di ciò che era giusto e utile per la città: i limiti erano solo quelli del gusto che gli uni e gli altri potevano trarne. Che ne avessero possibilità grazie a una condanna scaturita da una vittoria ingiusta, ovvero perché si erano impadroniti con la forza del potere, erano pronti a saziare la bramosia di lotta che li animava al momento. Per cui né gli uni né gli altri si comportavano secondo pietà, ma – in virtù di un uso specioso della parola – chi avesse avuto in sorte di mandare a effetto un’azione dettata dal rancore, ne guadagnava in reputazione. I cittadini che erano in posizione intermedia fra le due fazioni in lotta cadevano sotto i colpi degli uni e degli altri, o perché si erano rifiutati di prestare aiuto nel conflitto, o perché destava invidia che essi fossero lontani dal pericolo.

(da Tucidide, La guerra del Peloponneso, a cura di L. Canfora, Torino, Einaudi-Gallimard, 1996, pp. 435-441)

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