Democrazia deliberativa e pluralismo culturale

Per la costruzione di una nuova sfera pubblica

  • venerdì 02 Ottobre 2009 - 17.30
Centro Culturale

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Interrogarsi oggi sulle questioni della democrazia significa innanzitutto mettere a tema una crisi e una difficoltà. A questa crisi, dunque, è necessario per cominciare dedicare qualche osservazione. La situazione odierna potrebbe essere messa a fuoco in prima battuta partendo dalle parole-chiave crisi di fiducia, o crisi di legittimità. Il discredito sempre più grave che investe le pratiche, gli attori e talvolta anche le istituzioni della democrazia rappresentativa affonda le sue radici, a mio modo di vedere, in una serie di trasformazioni dei processi politici che si sono verificate negli ultimi anni e che hanno prodotto un panorama dalle caratteristiche inedite e, per certi versi, anche pericolose. Proviamo a enucleare qualche aspetto di queste trasformazioni.

In primo luogo sembra che sia venuta meno, dopo la crisi dei comunismi e dei socialismi e l’affermazione sostanzialmente incontrastata delle ideologie neoliberiste, una delle caratteristiche sostanziali che avevano caratterizzato la vita democratica per molti decenni, cioè il confronto o conflitto tra opzioni valoriali e orizzonti politici radicalmente diversi. Accade infatti che, nell’età del neoliberismo e del mercato globale, molte delle scelte più rilevanti siano di fatto sottratte a un vero dibattito pubblico e conflitto politico, perché: o trascendono l’ambito della politica a misura di stato-nazione e vengono sequestrate da tecnocrazie sovrananzionali lontane e poco controllabili; o vengono ricondotte a considerazioni di tipo tecnico che il pubblico dei profani è costretto ad accettare passivamente; oppure rispondono a opzioni sulle quali entrambi gli schieramenti in competizione si trovano d’accordo. Per esempio, si concorda, per ragioni “tecniche” (la presunta difesa del consumatore, mille svolte smentita dagli effettivi andamenti dei prezzi) sulla necessità di liberalizzare e ricondurre a logiche di mercato la fornitura di servizi essenziali come l’acqua, l’energia elettrica, il trasporto ferroviario o quant’altro, e ci si divide solo in funzione dei gruppi di interesse, o delle cordate imprenditoriali, che vengono dall’una o dall’altra parte favorite. In sostanza, dopo una trentina d’anni di martellanti campagne, l’egemonia delle parole d’ordine neo-liberali si è affermata sui due principali schieramenti politici in competizione, costringendo i cittadini a scegliere tra alternative che in molti casi non sono veramente tali, e inducendo dunque la chiara sensazione della futilità e inefficacia della loro partecipazione.

In conseguenza di queste trasformazioni, è completamente saltata anche un’altra caratteristica costitutiva della democrazia europea postbellica, e cioè la simmetria tra la geografia degli schieramenti politici e quella degli interessi sociali e delle classi che (sebbene con molte complicazioni e possibilità intermedie) assegnava alla sinistra la rappresentanza dei ceti popolari e alla destra quella dei ceti borghesi.

Lo stato di sofferenza della politica democratica oggi deve però, a mio avviso, essere compreso anche come il risultato di processi di lungo periodo che hanno prodotto quella che potremmo chiamare una riduzione del tasso di democraticità della democrazia. Processi di neo-elitizzazione e di sdemocratizzazione hanno investito sia gli assetti giuridici e politici sia la configurazione materiale della società. Per quanto riguarda il quadro “legale” della democrazia basterà ricordare, per esempio, la riduzione del ruolo del Parlamento rispetto all’esecutivo, la diminuzione della possibilità di controllo dei cittadini sulla scelta dei candidati (con sistemi come i collegi uninominali o l’abolizione delle preferenze), la sempre più marcata separazione dei rappresentanti dai rappresentati (il tema della “casta”).

La nuova elitizzazione, non solo della società, ma anche delle dinamiche politiche si può facilmente riscontrare nel fatto che l’accesso alla competizione politico-elettorale è diventato sempre più ristretto a causa della crescente quantità di risorse economiche che è necessario  mettere in campo; il ruolo sempre più rilevante della comunicazione televisiva, inoltre, ha ridotto il numero di coloro che sono protagonisti della scena e la mediatizzazione ha concentrato tutto l’interesse su pochi leader, sostenendo una forte spinta verso la oligarchizzazione del potere politico. Leaderismo e personalizzazione, ovviamente, si sono diffusi anche all’interno dei partiti, che hanno visto anch’essi diminuire (quando non sparire del tutto) il loro tasso di democrazia interna. Non c’è dunque da meravigliarsi se, su questa base, fioriscono e prosperano quelle tendenze emergenti e pericolose che sembrano caratterizzare la politica del nostro tempo:  quella che si profila è, ex parte populi, una politica del risentimento, dove il rancore, variamente indirizzato, prende il posto della critica razionale e della difesa dei propri interessi effettivi, che sono stati sostanzialmente marginalizzati. Ex parte principis, invece, quella che si viene affermando è una politica del populismo: che va definito, a mio modo di vedere, come la pretesa di offrire soluzioni politiche che siano in sintonia con il sentire immediato della “gente”, e che dunque pretendono di porsi al di là della dicotomia destra/sinistra. Risentimento e populismo, si potrebbe sostenere, sono l’altra faccia dell’eclisse del conflitto sociale, e configurano una vera e propria riduzione al grado zero della discussione pubblica.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, se a questa situazione critica la teoria politica democratica tende a rispondere, oggi, proprio attraverso una ricerca sui modi in cui si possano rilanciare la sfera pubblica e la discussione argomentata. All’uso politico dei sentimenti (e soprattutto dei risentimenti) si tenta di contrapporre la riscoperta dell’uso pubblico della ragione, la vecchia parola d’ordine kantiana che viene oggi rivisitata e attualizzata da tutta quella variegata famiglia di teorie che si raccolgono nel grande contenitore della “democrazia deliberativa”. Il punto di fondo che accomuna gli approcci “deliberativi”, che sono divenuti ormai, soprattutto nella letteratura politica anglofona, una vera e propria galassia, si può sintetizzare in una tesi molto semplice e anche piuttosto persuasiva: se la democrazia è un buon modo per prendere decisioni, e per dare ad esse una legittimità, non è solo perché in democrazia si contano i voti, e dunque prevale la volontà della maggioranza. Più importante ancora è, per i deliberativi, il fatto che, prima di decidere, si discute, si esaminano i pro e i contro, si confrontano ragioni e argomenti a sostegno dell’una o dell’altra alternativa. L’opinione pubblica, e la discussione attraverso la quale essa si forma (tra i cittadini, nei giornali, nelle organizzazioni e associazioni, nelle pubbliche manifestazioni), è per i deliberativi non solo il sale della democrazia ma, più in profondità, ciò su cui riposa in ultima istanza la sua legittimità: rispettiamo le decisioni di maggioranza in quanto risultano (o meglio dovrebbero risultare) da un confronto aperto e paritario, che autorizza dunque, per dirla con Habermas, una presunzione di razionalità, o quantomeno di ragionevolezza, degli esiti a cui si perviene.

I processi della democrazia reale, però, sembrano allontanarsi sempre più dal modello che, secondo i deliberativi, dovrebbe ispirarli; ed ecco dunque un fiorire di ricerche su come re-innestare discorsi e buone ragioni dentro una sfera pubblica che è sempre meno capace di ospitarli: per esempio affiancando alla politica parlamentare sedi diverse, fori nei quali si possano confrontare cittadini informati, oppure istituzioni partecipative che possano fungere da contraltare rispetto a una politica di professione divenuta sempre più autoreferenziale. Data la triste situazione in cui le procedure democratiche versano oggi,  le proposte volte a rinnovarle e a rivitalizzarle non possono che essere salutate con favore. E’ necessario però porsi anche le domande che molte teorie della democrazia deliberativa sembrano lasciare in qualche modo inevase: che rapporto c’è tra la democrazia procedurale, che si vorrebbe rafforzare, e la democrazia sostanziale che manca nella società? E che validità può avere il modello discorsivo di fronte  a conflitti culturali, religiosi o tra convinzioni morale profonde, che sembrano segnati da una rigidità che li rende quali impermeabili alla discussione pubblica? Insomma, come si rapportano tra loro il paradigma del dialogo e quello del conflitto?

Stefano Petrucciani

 

La nuova attenzione per la religione nella sfera pubblica (“postsecolarismo”, “ritorno del sacro” o “deprivatizzazione” della fede, comunque si voglia definire questa tendenza, sottolineata variamente da autori come Jürgen Habermas, Klaus Eder, Marcel Gauchet, José Casanova e Martha Nussbaum) ha una strettissima relazione con il liberalismo dei nostri tempi. Se in passato il pensiero e le pratiche liberali si sono affermate nel contrasto con la religione, con le pretese autoritarie della religione, o con pretese accampate in suo nome, oggi accade, al contrario, che l’atteggiamento accogliente verso la religione, le religioni al plurale, sia diventato un test di tolleranza e di libertà e che le pratiche liberali si trovino spesso nel mondo ad affermarsi insieme alle risorse religiose, dal Tibet agli Stati Uniti. Questa tendenza delle cose umane del tempo nostro disegna una scena in contrasto, in Italia, con il permanente conflitto tra laici e cattolici che, nel caso Englaro e affini, tende a polarizzare la vita politica nazionale tra destra-chiesa-famiglia e sinistra-laicismo-diritti individuali di scelta. Questa tensione – per quanto i laici possano insistere sui distinguo e sulla compatibilità tra fede e rispetto dei diritti – è palesemente in contrasto con la costruzione di un nuovo clima politico in Italia. La discussione che Reset intende proporre riguarda i punti seguenti:

(1) Nella difficilissima situazione italiana è necessario superare la conflittualità laici-cattolici e perseguire una alleanza tra riformisti laici e gente di fede, dichiarandone apertamente la necessità e perseguendola come un obiettivo politico e culturale attraverso una pluralità di relazioni verso la molteplicità delle religioni e delle culture che vi sono connesse: cattolici, ebrei, protestanti, musulmani (questi ultimi sono ormai in Italia un milione). Il rinnovamento del clima civile può bene ispirarsi al modello di Obama: accoglienza della religione nella sfera pubblica, denuncia e abbandono della linea laica standard diffidente verso la religione, richiesta alle religioni di contribuire alla formazione di una coscienza dei grandi problemi della società e del mondo, pur senza venir meno ai principi liberali del diritto di scelta della donna sull’aborto o alla libertà di ricerca sugli embrioni, estrema attenzione ai valori culturali e identitari che accompagnano le religioni (diventano più importanti, per tutti, islamici, ebrei, cristiani, anche quando non sono credenti). La religione può e deve entrare nella dimensione politica come un sostegno alla società e alla politica alle prese con problemi insormontabili senza supplementari risorse di solidarietà: povertà, insicurezza, emarginazione, alienazione, varie forme di dipendenza e intossicazione sociale, incapacità di destinare attenzione ai problemi globali.

(2) Si tratta di convocare sulla scena in primo piano la dotazione di “capitale sociale” delle religioni. Questo non comporta necessariamente concessioni e sacrifici insostenibili da un punto di vista liberale ma comporta due cose poco praticate in Italia in tempi recenti, non solo da parte degli integralisti clericali ma anche dai laici: a) la ricerca prioritaria di compromessi che tengano conto delle ragioni in conflitto, b) l’apprezzamento politico e morale, reciproco, per molte ragioni e principi reciprocamente avanzati. Invito ancora a considerare la portata del gesto di Obama che, dopo l’incontro con Benedetto XVI, ha annunciato l’impegno a ridurre il numero degli aborti negli Stati Uniti.

(3) Queste aperture alle religioni si accompagnano a una necessaria ricostruzione umanistica del discorso politico-ideale, che tra i progressisti italiani ed europei è fondamentalmente defunto. Manca un’idea della civilizzazione che sappia tradursi nel linguaggio di una buona politica di solidarietà, giustizia, internazionalismo, interdipendenza, tutela dell’ambiente e che riesca ad imprimere effetti alla discussione pubblica, diventando attiva, mobilitando gli elettori. Ma ancora di più percepiamo la difficoltà a reagire al disgregarsi di una cultura politica nazionale italiana. Manca il materiale ideologico da costruzione e per questo non si riesce a proporre alcun chiaro disegno collettivo. Una idea del liberalismo come regno dell’autonomia individuale è una delle versioni possibili della cosa, ma da sola ci lascia privi di fattori coesivi, svuota la politica di risorse che le danno anima e capacità di agire sui problemi più vasti, la trasforma in una competizione di interessi a somma zero, scatena tendenze centrifughe, deprime la responsabilità sociale. Il confronto con la cultura religiosa, quando interviene sui temi della povertà, della socialità, dell’immigrazione, è un momento utilissimo per recuperare energie, per rivedere i parametri correnti della discussione, ma questo confronto bisogna perseguirlo, non temerlo.

(4) L’educazione al pluralismo, la costruzione di una cultura pluralista capace di affrontare i temi dell’agenda del mondo di oggi e dell’interdipendenza (economia, salari, salute, pace, ambiente, clima…) sono soltanto all’inizio. Si tratta di un’impresa immane e il fatto che sia così difficile da intraprendere non la rende meno necessaria. La prima condizione per toglierla dal novero delle cose impossibili è dichiararne la necessità e la mancanza. Non è solo un compito politico, si tratta di un’impresa ideologica, teorica e insieme morale. Si tratta di curarsi di qualche cosa che potremmo chiamare «religiosità liberale», si tratta di consolidare le «basi emotive di una società pluralista e rispettosa delle differenze culturali» (Nussbaum). È vero per l’India come è vero per l’America e i paesi europei alle prese con l’ondata della globalizzazione e delle immigrazioni. Se questa attenzione manca, è la politica della paura e dell’odio a occupare il vuoto perché le terapie di difesa, basate sulla mobilitazione identitaria e localista generano e moltiplicano la negazione degli altri e i conflitti. E funzionano come unica alternativa per gli elettori di fronte a una globalizzazione amorale, minacciosa, senza radici.

(5) Il tema del liberalismo plurale ha bisogno di un nuovo paradigma di azione: sviluppare la cultura dell’eguale rispetto per le differenze, promuovere la visibilità delle differenze in vari modi: stimolando l’emersione di leaders nelle diverse comunità, proponendo iniziative culturali che valorizzino le differenze, che educhino al rispetto per la varietà, con musei e rassegne culturali, premi e incentivi, creando occasioni e luoghi di incontro con le diverse comunità, spingendo a una piena funzionalità la rappresentanza delle minoranze religiose, spingendo il servizio pubblico radiotelevisivo a rappresentare la dimensione multi e inter-interculturale, stimolando la discussione sul trattamento delle minoranze nelle scuole ed elaborando un progetto per l’accesso alla cittadinanza.

 

Giancarlo Bosetti

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