Il tramonto della rivoluzione


Churchill sosteneva che non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare. Questa spinta al cambiamento pare avere abbandonato il Vecchio Continente da alcuni decenni a questa parte. Così ritiene Paolo Prodi, il quale esplicita alla fine di questo suo breve, ma assai denso, testo la tesi secondo cui "non è che la civiltà europea sia aggredita dall’esterno ma sono le nostre istituzioni e la nostra stessa antropologia a essere entrate in crisi insieme alla capacità rivoluzionaria della nostra civiltà" (p. 107). 

Prodi utilizza il termine "rivoluzione" per indicare "un progetto di futuro come cammino dell’umanità verso la salvezza" (p. 103). Ne coglie dunque, correttamente, le matrici religiose, e in particolare quelle di carattere profetico-millenaristico di tradizione ebraico-cristiana. Ritiene che questo spirito rivoluzionario sia stato la molla del progresso indubbio che l’Europa ha vissuto sotto il profilo politico, sociale, economico e culturale. Dalla profezia si è passati all’utopia nel corso dei secoli, e in particolare nel lungo periodo di transizione dall’età di mezzo alla prima modernità, per usare convenzionali periodizzazioni storiografiche invalse in ambito europeo-occidentale. Prodi sottolinea, in particolar modo, il ruolo svolto dalla predicazione di Gioacchino da Fiore (1130 ca. – 1202), grazie al quale la protesta contro il potere non si rinchiuderebbe in una visione apocalittica, come si è soliti pensare, bensì "crea un’ideologia che predice e invoca un rinnovamento della società e della Chiesa" (p. 33). Soprattutto la predicazione gioachimita rompe con l’idea ciclica del tempo, dunque con una predilezione per l’idea restaurativa, e inverte il senso della storia così come inteso da molte religioni pre-cristiane e da certe letture medievali dello stesso cristianesimo. 
La storia non precipita, bensì si innalza, non ha l’andamento della vita di un qualsiasi organismo vivente, segnato dall’invecchiamento. Al contrario, la storia "ringiovanisce", nel senso che "i piccoli e gli umili saranno i protagonisti dei tempi finali", secondo quanto scrive uno studioso di Gioacchino da Fiore citato da Prodi (p. 34). Dunque, il vero destinatario delle preoccupazioni prodiane non è tanto la rivoluzione, quanto l’utopia moderna, contestazione dell’esistente e aspirazione insopprimibile a una riforma radicale della società.
D’altro canto, l’utopismo è il sintomo di una religione che, istituzionalizzandosi, non è riuscita a conquistare il monopolio del potere. In questo senso Prodi si richiama agli studi di Harold G. Berman, il quale ha collocato la prima delle "rivoluzioni europee" nel secolo XI, ai tempi dell’opera di riforma di papa Gregorio VII. Più in generale, tra XI e XIII secolo, nel fuoco della lotta delle investiture fra papato e impero, si consuma la separazione fra potere politico e potere religioso. Questo segna l’inizio di quel dualismo istituzionale, di quel pluralismo dei poteri, in costante tensione fra loro poiché nessuno in grado di soggiogare a lungo l’altro, che ha favorito la costruzione del sistema costituzionale occidentale. Nel conflitto fra i due poteri, politico e religioso, se ne è più tardi inserito un terzo, quello economico-finanziario, localizzato nel mercato, ora in concorrenza ora in complicità con gli altri due. Nel pluralismo, che inizialmente è mera pluralità che ciascuno dei contendenti intende ridurre ad unità, omogeneità e conformismo, si rende necessario l’istituto del patto, e dunque del giuramento come criterio di investitura del potere. Un potere che, in conseguenza del fatto di essere preceduto e condizionato nel suo conferimento dal giuramento-sacramento (orizzontale e dal basso), "permette la crescita di rapporti politici condizionati ai comportamenti reciproci, alle situazioni concrete, alla ragione, allo specifico ministero o ruolo, e anche la nascita di rapporti plurimi di fedeltà" (p. 42). Sempre il "patto giurato" legittima il principio di resistenza, trasformandolo in un diritto che sarà poi costituzionalizzato. I soggetti pattizi possono denunciare la violazione dei contenuti dell’accordo fondativo e insorgere se non soddisfatti nelle loro richieste di ristabilimento dei principi e delle norme originarie su cui hanno prestato giuramento. Una minaccia attuale al dualismo istituzionale europeo-occidentale è data dall’invasione del diritto positivo in ambiti della vita un tempo non coinvolti dalla normazione statuale. 
Anche il foro interiore delle coscienze individuali rischia perciò di essere normato, con la conseguenza, denunciata già trent’anni fa da Jacques Ellul e riportata da Prodi, che "il rifugio assoluto nel diritto è mortale per la negazione del calore, dell’elasticità, della fluttuazione delle relazioni umane che sono indispensabili affinché un corpo sociale […] possa vivere e non solo funzionare" (p. 47).
Secondo Prodi la continua, inesausta dialettica fra i tre poteri sopra elencati, sempre in lotta fra loro, ma anche in crescente ineludibile ibridazione reciproca, ha permesso la nascita della dottrina dei diritti umani e dei progetti costituzionali sfociati nelle grandi rivoluzioni di fine Settecento. Questa sarebbe l’essenza dell’Europa come civiltà: la "rivoluzione permanente", da intendersi probabilmente nell’accezione churchilliana di mutamento per migliorare. Più propriamente, per adeguare il reale al razionale. Hegelianamente. Di qui il ruolo decisivo, epocale, svolto dall’illuminismo. Secondo Prodi, la grandezza della stagione dei Lumi non sarebbe quella di un modello astratto, e come tale esportabile a mo’ di meccanismo trapiantabile, bensì è il frutto peculiare di un plurisecolare processo culturale contrassegnato dalla distinzione e compresenza "della storia umana e della storia della salvezza". Di qui sarebbe scaturito il pensiero rivoluzionario "capace di trasformare la profezia in utopia, di progettare la costruzione di un nuovo sistema sociale, politico ed economico basato sul diritto naturale e sulla libertà di coscienza contro il potere dominante" (p. 55). Un’utopia frutto sia dell’ibridazione, peraltro inintenzionale, sia dello scontro, del tutto intenzionale, fra attitudine religiosa-trascendente e attitudine ateo-secolare. Da non sottovalutare, poi, sarebbe quella ricerca della sicurezza che Montesquieu riconosceva essere natura e fine della libertà politica. Anche da una tale esigenza nascono le prime carte costituzionali, tipo la Magna Charta Libertatum, di cui quest’anno ricorre l’ottavo centenario. Anche qui risiede il miglioramento, inteso come emancipazione. 
Ed è anche qui che si incaglia, a mio avviso, l’identità europea e non soltanto, come ritiene Prodi, nel fatto che "l’era della tecnica" ci cancella qualsiasi visione del futuro che non sia inscritta nel progresso tecnologico. Secondo lo studioso bolognese, "nella politica come nella scienza è venuta meno la coscienza di una possibile rivoluzione dell’umanità, di un progetto di futuro come cammino dell’umanità verso la salvezza" (p. 103). Privi di cultura e coscienza storica, si insisterebbe su un presente percepito come eterno. Prodi ha probabilmente ragione del denunciare il fatto che "siamo ormai di fronte alla fine della storia come fondamento dell’educazione delle nuove generazioni mentre avanzano ogni giorno le discipline senza tempo, da quelle psicologiche e sociologiche a quella della comunicazione" (p. 100). In modo altrettanto probabile, la storia come azione di individui e di popoli si sta già incaricando di ricordare agli europei che il passato pesa e che la voglia di futuro è insopprimibile come la stessa vita in quanto istanza generativa.

Dati aggiuntivi

Autore
  • Paolo Prodi

    Professore emerito di Storia moderna - Università di Bologna

Anno pubblicazione 2015
Recensito da
  • Danilo Breschi

    Professore di Storia delle dottrine politiche - Università degli Studi Internazionali di Roma

Anno recensione 2015
ISBN 9788815257277
Comune Bologna
Pagine 119
Editore