Roma, la città degli dèi

La capitale dell’Impero come laboratorio religioso


La raccolta curata da Corinne Bonnet ed Ennio Scanzi intende saggiare la validità di una celebre definizione presente nell’orazione A Roma pronunciata da Elio Aristide nel 144 d.C. sotto il regno di Antonino Pio. Il retore compara l’Urbe a un koinòn ergasterion, espressione difficilmente traducibile nelle lingue moderne, ma che i curatori propongono di rendere con «laboratorio comune della terra», una formula efficace che riassume in sé tanto l’idea di comunanza e partecipazione veicolata dall’aggettivo koinòn quanto la dimensione pragmatica e manuale compendiata da ergasterion, che evidentemente sta per atelier, manifattura. Organizzati in cinque sezioni, ognuna delle quali dedicata allo studio di un tema specifico (“vettori e attori di culto”, “culti stranieri e orientamento politico”, “coabitazioni culturali”, “immagini e simboli”, “magia ed esotismo”), i saggi prendono in esame le molteplici forme di interazione che caratterizzano, nel periodo di tempo che va dalle guerre puniche alla tarda antichità, i rapporti tra la religione romana tradizionale e i numerosi culti stranieri che giunsero per vie diverse dalle periferie dei domini romani per installarsi, o comunque provare a farlo, nel cuore prima della repubblica e in seguito dell’impero. L’attenzione è rivolta soprattutto a quella che la storiografia recente chiama “religione vissuta”, alle scelte cioè operate dai singoli, dalla cui analisi appaiono con vividezza le strategie messe in atto dei romani verso questi riti – che prevedono un’ampia gamma di alternative, dal rifiuto all’accettazione, dalla marginalizzazione all’integrazione – e gli altrettanto differenti atteggiamenti adottati dai nuovi venuti. Quel che emerge fin dalle prime pagine del volume è proprio l’impossibilità di ricondurre la varietà delle esperienze a schemi convenzionali troppo rigidi o di incanalarle nei confini imposti dalla moderna idea di identità.

Talvolta, ad esempio, si poteva essere considerati radicalmente estranei rispetto al contesto civico romano e al contempo si poteva partecipare alle pratiche cultuali in onore di una dea, essa stessa in bilico tra assimilazione ed estraneità. È il caso di Genucio, un liberto vissuto all’inizio del I secolo a.C., appartenente a un particolare gruppo di adepti della frigia Mater Magna, denominati galli, i quali in occasione del dies sanguinis del 24 marzo si flagellavano e si eviravano in ricordo di Attis, amante della dea. La sessualità sfuggente di Genucio (Valerio Massimo afferma che «non deve essere considerato nel novero né degli uomini né delle donne») non gli consente di godere dei diritti riconosciuti agli altri cittadini. Non può, ad esempio, ottenere un’eredità che pure gli è stata lasciata da un liberto per via testamentaria poiché i tribunali romani non possono essere «profanati» dalla sua «oscena presenza» e dalla sua «voce corrotta». In quanto gallus, inoltre, Genucio è esposto allo scherno della popolazione, che doveva giudicare quantomeno insolita, per i canoni della virilità dell’epoca, l’adozione di abiti femminili e l’abitudine di portare i capelli lunghi e di imbellettarsi. I galli infatti non godevano di alcuna considerazione nella società romana, tanto che non hanno lasciato alcuna traccia epigrafica della loro attività e sono spesso qualificati nelle fonti con epiteti dispregiativi, quali semiviri, “mezzi uomini”, o semimares, “mezze donne”. Questo isolamento sociale, tuttavia, non impediva a Genucio e ai suoi colleghi di prendere parte in modo attivo alle celebrazioni per Mater Magna, tra le quali la festa della lavatio del 27 marzo, che concludeva il ciclo festivo del lutto per Attis e durante la quale la statua della dea veniva condotta al fiume Almone, un affluente del Tevere, e lì bagnata, e forse la misteriosa processione dell’arbor intrat del 22 marzo, quando un pino, lo stesso albero sotto il quale Attis aveva trovato la morte, veniva portato sul Palatino. Anche se in quest’ultima occasione, a partire dal regno di Claudio, il ruolo degli officianti fu svolto dal collegio dei dendrofori, che di certo doveva apparire all’aristocrazia conservatrice ben più rassicurante e disciplinato degli eunuchi di Mater Magna.

Altre volte ci si poteva integrare in modo pressoché perfetto, come accadde alla fine del II secolo d.C. al ricco commerciante Marco Antonio Gaionas. Proveniente da una famiglia di liberti originaria di Eliopoli, Gaionas riesce a mantenere saldi i legami con la propria comunità di origine e al tempo stesso a inserirsi senza ostacoli in quella di arrivo, come testimoniano due iscrizioni da lui stesso volute. A Porto presso Ostia, dove conduceva i propri affari con l’Oriente, rende onore al dio di Eliopoli, qualificandolo con l’epiteto di angelus, ovvero messaggero, sconosciuto a Roma, ma attestato in Siria e in Arabia. In una dedica a Commodo, invece, pone l’accento sul suo essere cittadino romano, presentandosi con i suoi tria nomina e ricordando sia le funzioni di flamine svolte nella devozione tributata all’imperatore sia il servizio prestato nell’amministrazione della città in qualità di cistiber, ovvero di addetto alla sorveglianza delle strade della capitale.

Valutazioni discordanti sui culti stranieri emergono anche dalle interpretazioni che si possono fornire di episodi simili. Sempre Valerio Massimo, nei Fatti e detti memorabili, racconta di un edile della plebe, Marco Volusio, che riuscì a scampare alla proscrizione decisa contro di lui da Marco Antonio, Lepido e Ottaviano nel novembre del 43 a.C. indossando gli abiti di Isiacus, e la maschera da sciacallo di Anubis, aggiunge Appiano. Il travestimento, completo o meno che fosse, gli consentì di fuggire da Roma e raggiungere l’accampamento macedone di Bruto o forse la Sicilia, dove si trovava il quartier generale di Sesto Pompeo. Il commento che Valerio Massimo riserva al comportamento di Volusio, reo di aver denigrato la carica pubblica che deteneva e di aver sfidato l’autorità politica, per di più sotto le spoglie di una alienigena religio, è durissimo: «Cosa potrebbe essere più un misero di un magistrato del popolo romano che sia costretto a rinunciare alla gloria della sua carica e a scendere in strada camuffato nelle vesti di una religione straniera! La gente è troppo attaccata alla propria vita o troppo bramosa di prendere la vita altrui se può sopportare tali umiliazioni o obbligare altri a subirle!». Il giudizio sembra riflettere l’accettazione della politica religiosa di Tiberio, che nel 19 d.C. aveva vietato i culti egizi e giudaici, ordinando la distruzione dei paramenti e degli oggetti sacri e bandendo dalla città i loro adepti. Di tutt’altro segno è la vicenda tramandata da Tacito nelle Storie. Quando le truppe di Vitellio, nel dicembre del 69 d.C., attaccarono il Campidoglio, Domiziano si nascose presso il custode del tempio di Iside e grazie all’aiuto di un liberto indossò una lunga veste di lino, tipica dei sacerdoti della dea. Si sarebbe così facilmente mescolato alla turba dei ministri del culto e, senza essere riconosciuto, avrebbe trovato rifugio nella casa di Cornelio Primo, cliente del padre Vespasiano, situata nei pressi del Velabro. Benché Tacito costruisca il proprio racconto su quello di Valerio Massimo, date le evidenti analogie che affiorano nei particolari e nel lessico utilizzato, la lettura che fornisce è opposta: mentre Valerio Massimo biasima con fermezza l’anticonformismo di Volusio, Tacito celebra la protezione accordata dagli dèi egizi alla dinastia dei Flavi, che a loro volta onorarono Iside in forma monumentale a partire dalla ricostruzione dell’Iseo Campense.

Se ci sposta alla metà del IV secolo d.C., ci si imbatte in un’ulteriore conferma della difficoltà di applicare in senso anacronistico e in modo troppo rigoroso categorie come paganesimo, ebraismo e cristianesimo. Le relazioni tra i vari gruppi religiosi oscillarono infatti tra fasi di conflitto, anche acute, e momenti di collaborazione politica. Esempio della possibilità di una sorprendente coabitazione religiosa è il senatore Vettio Agorio Pretestato, esponente di spicco della vita politica romana (fu prefetto di Roma e prefetto del pretorio dell’Italia, dell’Africa e dell’Illirico), celebrato anche da Macrobio nei Saturnali. Un’iscrizione funeraria rinvenuta nel clivus Capitolinus alla metà del XVIII secolo elenca le numerosissime cariche religiose che egli era stato in grado di accumulare: augure, sacerdote di Vesta e di Sol, membro del collegio dei quindecemviri sacris faciundis, a cui era demandata l’interpretazione dei libri sibillini, curialis Herculis, iniziato del dio Liber, ierofante dei misteri eleusini, amministratore di un tempio dedicato a Isis e Serapis, nonché pater patrum nel culto di Mitra. Tutto ciò testimonia la vitalità della religione romana del tempo e non un suo declino a cui avrebbero sopperito i riti orientali, veri concorrenti del cristianesimo, secondo la classica tesi formulata da Franz Cumont all’inizio del Novecento. Del resto, bisogna anche tener conto che l’immagine dell’Oriente nella cultura romana era sempre stata caratterizzata da una decisa ambivalenza. Da una parte, i paesi orientali erano considerati la fonte di una saggezza primigenia, quella incarnata dalla civiltà persiana e indiana, che bisognava recuperare, come pensò di fare Plotino unendosi alle truppe di Gordiano III dirette verso l’Eufrate; dall’altra parte, erano descritti come un luogo di depravazione, lussuria e immoralità. Questi ultimi tratti negativi vennero talvolta trasposti sulle figure degli imperatori, come avvenne con Elagabalo, accusato dalla storiografia di ispirazione senatoria di opporsi ai princìpi del sistema imperiale, affidandosi nella sua opera di governo all’aiuto di schiavi e liberti, mimi e attori, di rifiutare la tradizione militare su cui quell’impero si fondava e di rovesciare il pantheon romano, decretando la superiorità del dio di Emesa di cui era sacerdote su Giove capitolino e sposando addirittura una vestale. A destare apprensione tra i contemporanei furono le modalità tipicamente orientali da lui seguite nella devozione a Baal, che una volta acclamato imperatore, appena quattordicenne, aveva condotto sotto forma di betilo a Roma con un solenne corteo. Le monete rappresentano Elagabalo intento a sacrificare con «un abbigliamento barbaro» come lo definisce Erodiano, mentre indossa una tunica di porpora intessuta d’oro, lunghi pantaloni che gli coprono le gambe e la testa adornata da una corona di pietre preziose con colori brillanti. L’indignazione dei tradizionalisti verso la mollezza dei costumi fu tale che, dopo l’assassinio di Elagabalo da parte dei pretoriani e la sua conseguente damnatio memoriae, il successore Alessandro Severo fece immediatamente restituire la pietra/dio a Emesa e tentò di ripristinare l’ordine, insieme religioso, sociale e militare, che era stato infranto: la Storia Augusta precisa che il nuovo imperatore «voleva essere considerato di autentica origine romana, giacché provava vergogna che lo si chiamasse siriano». Tutto ciò mostra l’alto livello di complessità dei paesaggi religiosi della Roma antica tra repubblica e impero, dominati da alternative e modelli concorrenziali, la cui scelta a tutti i livelli poteva determinare effetti per il singolo e per la comunità in cui viveva.

Dati aggiuntivi

A cura di
Anno pubblicazione 2018
Recensito da
Anno recensione 2018
ISBN 9788843090921
Comune Roma
Pagine 452
Editore