Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento


Chi non conosce la produzione storiografica di Adriano Prosperi potrà forse guardare a questo suo studio sul mondo dei contadini italiani del XIX secolo come a una divagazione, sia pure colta, quando in verità esso costituisce un approdo oserei dire quasi naturale per chi ha dedicato più di un cinquantennio della propria vita alla ricostruzione della cultura religiosa e spirituale della prima età moderna. Anzi, si potrebbe affermare che le ricerche di Prosperi si siano indirizzate prevalentemente all’analisi delle tensioni tra il tentativo di costruire e affermare una “religione ufficiale”, specie dopo l’esperienza tridentina, e le resistenze che a livello locale si sono manifestate, spesso con conseguenze tragiche per chi le proponeva, contro l’imposizione di tale modello. Ecco allora che all’origine di Un volgo disperso – espressione ripresa dal coro con cui si chiude l’atto terzo dell’Adelchi di Manzoni (Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti, / dai boschi, dall’arse fucine stridenti, / dai solchi bagnati di servo sudor, / un volgo disperso repente si desta) – mi sembra che stiano almeno due moventi, entrambi di largo respiro. Il primo di essi è legato allo specifico percorso biografico-intellettuale di Prosperi, che fin dall’introduzione si presenta al lettore non soltanto in veste di storico, ma anche come «un testimone del tempo remoto in cui nelle campagne si viveva in case di due stanze, una era per la famiglia e l’altra era la stanza della mucca o – per chi l’aveva – del maiale, che era a un passo dalla camera da letto o dalla cucina» (p. xvii). Un brano che ricalca una celebre notazione presente in Cristo si è fermato a Eboli, laddove Carlo Levi scrive che: «Le case dei contadini sono tutte uguali, fatte di una sola stanza che serve da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie piccole, quando non c’è per quest’uso, vicino alla casa, un casotto che si chiama in dialetto, con parola greca, il catoico». Prima ancora, Ignazio Silone nella Prefazione a Fontamara aveva parlato delle abitazioni dei «cafoni» della Marsica in termini simili, come di «catapecchie», al cui interno «abitano, dormono, mangiano, procreano, talvolta nello stesso vano, gli uomini, le donne, i loro figli, le capre, le galline, i porci, gli asini». Nessuna meraviglia dunque che in Un volgo disperso, che si apre con la dedica Dis Manibus, vi sia anzitutto il ritorno di Prosperi a Cerreto Guidi, suo luogo natale, «una delle piccole tessere che componevano il mosaico del Regno d’Italia» (p. 187), alle cui carte d’archivio è riservato un breve capitolo del libro, l’undicesimo. Non mancano poi i riferimenti al territorio emiliano con parole di grande affetto verso Carlo Poni e verso il suo impegno per la fondazione del Museo della civiltà contadina di San Marino di Bentivoglio: non si dimentichi che per Prosperi l’insegnamento alla Facoltà di Magistero dell’Università di Bologna costituisce uno snodo cruciale, di cui resta preziosissima testimonianza il seminario organizzato con Carlo Ginzburg sul Beneficio di Cristo. Così come sono significativi i richiami a Pisa, luogo altrettanto fondamentale per l’itinerario di Prosperi, prima come studente presso la Scuola Normale Superiore, poi come docente.

Il secondo motivo alla base del libro va forse rintracciato nella volontà di restituire legittimità al problema della cultura popolare, espressione alla quale continuerò a riferirmi nel proseguo di questa nota per brevità e comodità, ma che sarebbe più opportuno sostituire, in attesa di formule migliori, con culture delle classi popolari o delle classi subalterne, a sottolineare la non monoliticità, e al contempo la non assimilabilità, tra le «concezioni del mondo e della vita», per dirla gramscianamente, elaborate da gruppi per la maggior parte disomogenei tra loro. Al di là delle precisazioni terminologiche, che non possono essere trascurate perché hanno un evidente riflesso sulla comprensione dei fenomeni concreti, quel che è certo è che l’interesse per la cultura popolare ha perduto gran parte dell’impulso sociopolitico ed etico che l’aveva animato nel secondo dopoguerra, quando in corrispondenza con la pubblicazione dei Quaderni di Gramsci, e soprattutto delle poche ma influenti pagine dedicate alle Osservazioni sul folklore, aveva dato vita non solo a un accesso dibattito, ma anche al proficuo filone della demologia con il conseguente ripensamento critico dei repertori ottocenteschi sui canti, i racconti e le tradizioni popolari, spesso di ispirazione romantica e d’impianto erudito-filologico. Negli ultimi decenni non sono mancate in questo settore di studi ricadute nel «pittoresco», imprudenze metodologiche e cedimenti allo spirito dei tempi, a quel «folklorismo deteriore, coloristico e turistico, da cartolina illustrata o da organizzazione dopolavoristica» di cui parlava Alberto Mario Cirese, o ancora a quel «folclorismo», tipico degli intellettuali italiani, che secondo Cesare Pavese tendono a «ridurre, per esempio, la dura serietà della vita dei campi a un costume variopinto, a un dialetto o a un rito». Ciò che è ancora più preoccupante, non sono mancati sfruttamenti mercantilistici. Le ricerche di Ernesto de Martino sono state tra le vittime predilette della riduzione di fatti culturali e storici a oggetti di consumo e di intrattenimento, emendati dalle loro contraddizioni, liberati dalle loro ambiguità, isolati dai loro contesti di elaborazione, e di certo analizzati ben al di là e al di fuori di quella «tradizione De Sanctis-Croce-Gramsci» con cui avrebbero dovuto «dialogare», secondo lo stesso de Martino, «gli studi etnologici in Italia». E non è andata meglio al mugnaio friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, la cui figura era riemersa dagli archivi grazie al paziente lavoro di Carlo Ginzburg, ripreso e approfondito poi da Andrea Del Col: anch’egli, purtroppo, è stato oggetto di letture superficiali e parziali, a voler essere benevoli.

Prosperi è ben avvertito dei pericoli di un modo tanto svilente di intendere la cultura popolare e osserva, con un accento fortemente polemico, proprio in apertura del suo scritto, che oggi «le rievocazioni epidermiche di festival strapaesani del cibo e del vino sono uno dei tanti modi in cui la cultura diffusa tende a cancellare passato e futuro nell’ossessiva dilatazione di un presente fuori dalla storia» (p. x). Contro tali derive aveva già messo in guardia proprio Carlo Ginzburg, introducendo nel 1980 la versione italiana del libro di Peter Burke Cultura popolare nell’Europa moderna, in cui parlava non a caso di «mode culturali», e più di recente vi ha insistito con la consueta lucidità Fabio Dei nel volume Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco (2018). Eppure, la questione della cultura popolare e del suo rapporto con la cultura dominante (anche qui bisognerebbe riflettere sulla validità di tale espressione) appare giustamente viva, anzi vivissima, e degna della maggior attenzione da parte di chi voglia intraprendere e praticare il mestiere dello storico, occupandosi del passato senza disinteressarsi alla contemporaneità. Accanto ai riferimenti, talora espliciti, talaltra sottotraccia, oltre che ovviamente a Gramsci, al Marc Bloch dei Caratteri originali della storia rurale francese e della Società feudale, all’Emilio Sereni della Storia del paesaggio agrario italiano e agli studi di Pierre Bourdieu sui contadini come classe objet, un’influenza decisiva sulla riflessione di Prosperi su questo tema deriva ancora una volta da Ginzburg e in particolare dalla prefazione a Il formaggio e i vermi (1976), in cui si illustravano i limiti di alcune tra le maggiori tendenze di ricerca nella trattazione della cultura popolare. Agli occhi di Ginzburg, non erano accettabili né l’impostazione adottata da Robert Mandrou, che assumeva la «completa passività culturale» delle classi popolari, né quella di Geneviève Bollème, che invece vedeva nel popolo la capacità di esprimere in modo spontaneo una cultura originale e autonoma, ma soltanto in forma rudimentale, né infine quella di Michel Foucault, che assegnava alla cultura delle classi subalterne un’«estraneità assoluta che si pone addirittura al di là, o meglio al di qua della cultura [sottinteso dominante]». Ben più pertinente, anche se con qualche riserva, appariva a Ginzburg il testo di Michail Bachtin L’opera di Rabelais e la cultura popolare (che sarebbe stato tradotto in italiano soltanto nel 1979), dove si sottolineava non tanto la «dicotomia» tra la cultura egemonica e le culture subalterne, quanto l’esistenza di una «circolarità», di un «influsso reciproco» e di «fecondi scambi sotterranei» tra questi poli. Del resto, era stato Carlo Levi, in una conferenza tenuta al Teatro Carignano di Torino nel marzo 1950, a ricordare che il mondo contadino e quello dei «galantuomini», o dei «luigini» come li chiama ne L’Orologio, «sono intrecciati insieme e, se si vogliono considerare contradditori, essi lo sono soltanto in un modo dialettico, nel quale ciascuno presuppone l’altro e lo condiziona». Punto su cui Prosperi sembra concordare in pieno.

Un altro dei problemi di cui Prosperi è perfettamente consapevole – e come potrebbe non esserlo, tale è la sua familiarità con i processi e gli archivi inquisitoriali – è l’utilizzo prudente e meditato delle fonti, in cui i contadini non parlano quasi mai in prima persona, ma in cui giacciono nascosti dietro l’apparente oggettività delle cifre o in cui le tracce della loro presenza e del loro lavoro emergono solo a tratti, appena abbozzate in chiave negativa e fortemente gravate da rappresentazioni sedimentate nel tempo. Insomma, le figure dei contadini si intravvedono, più che cogliersi appieno, al di sotto di queste pesanti stratificazioni. Prosperi prende in esame pazientemente indagini statistiche, opere mediche, registri parrocchiali, atti di visite diocesane, inchieste parlamentari, ricerche antropologiche ed etnologiche, ricavando da questa multiforme documentazione l’immagine dell’estrema diversità delle situazioni, che anche dopo l’Unità contribuisce a definire l’«abito di Arlecchino di un’Italia delle campagne dove più dei confini degli Stati preunitari erano la realtà della natura e le differenze degli assetti sociali a determinare le condizioni di vita e le relazioni tra padroni e contadini» (p. 66). Sullo sfondo di tali evidenti discontinuità emerge però una «realtà comune», dominata dalla povertà, da legami di dipendenza e subordinazione spesso insopportabili e ineludibili, dall’incertezza dei raccolti, esposti alla variabilità atmosferica, e quindi dalla scarsità dell’alimentazione. Di fronte a questi dati già gli osservatori contemporanei d’estrazione borghese ricavavano l’impressione che le campagne fossero un «altro mondo», ossia luoghi refrattari a ogni cambiamento, immobili e irriformabili, dominati non solo dalla sporcizia materiale (il «succidume» o la «succidezza» di cui parlano frequentemente i documenti), ma anche dal vizio, secondo quel nesso stringente tra miseria, immoralità e malattia che fu utilizzato come modello di comprensione e spiegazione della realtà rurale e urbana per gran parte dell’Ottocento. Prosperi riserva uno speciale interesse alle difficili relazioni tra apparati centralistici e contesti locali, ben o mal compendiata, a seconda dei punti di vista, dalla figura del medico condotto. Un’attività spesso giudicata spregevole perché scarsamente riconosciuta a livello sociale (Arnaldo Fusinato scrisse che «Arte più misera, arte più rotta / Non v’ha del medico che va in condotta»), eppure investita dal nascente Stato unitario di compiti quanto mai decisivi per il controllo, la mappatura e l’eventuale repressione dei comportamenti insalubri e devianti adottati dalla popolazione delle campagne, in esplicita concorrenza con l’azione che il clero andava svolgendo e che soprattutto aveva svolto per gran parte dell’età moderna: «Si apriva qui», scrive Prosperi, «una fase nuova delle relazioni tra due categorie di intellettuali [il medico e il sacerdote]: la questione, da allora in poi, fu chi dovesse essere il titolare della fiducia delle classi popolari» (p. 75).

Altrettanto rilevante è lo spazio che Prosperi dedica al ruolo di Cesare Lombroso e dei lombrosiani, che costituiscono una specola dalla quale osservare l’ambivalenza del rapporto tra intellettuali e popolo tipico del caso italiano, rapporto già descritto da Gramsci come di tipo paternalistico e colonialistico, con tratti da «“società protettrice degli animali”, o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia». È vero infatti che gli studiosi legati direttamente o indirettamente all’ambiente lombrosiano erano spesso animati da simpatie riformistiche e socialistiche, ma è anche vero che le loro rivendicazioni per il miglioramento delle condizioni di vita delle plebi urbane e rurali e per il risanamento ambientale attraverso misure igieniche e di medicina sociale andavano di pari passo con la riattivazione di vecchi stereotipi e la creazione di nuovi, che avrebbero contribuito a edificare e rafforzare l’immagine delle «due Italie» (quando non delle «tre Italie», includendovi anche le regioni centrali), abitate da gruppi etnici profondamente diversi tra loro per costituzione fisica e temperamento. Si poneva così le basi di visioni razzistiche ed eugenetiche, ovvero di tutti quei «meccanismi sociali di esclusione contro i rappresentanti dell’arcaismo, le classi legate alla terra, alle superstizioni, all’oralità» (p. 323). Concetti come atavismo, arresto di sviluppo e degenerazione furono spesso usati come sinonimi, sempre con un’accezione patologica, per indicare l’immobilismo di intere fasce della popolazione, non di rado assimilate alle specie animali. A proposito di un uso non sempre accorto di categorie desunte dalle scienze naturali e dalla medicina, qui si può pensare, tra i vari esempi possibili, ai lavori dello statistico Alfredo Niceforo, autore sia di un discusso volumetto sulla Delinquenza in Sardegna (1897), in cui sosteneva l’esistenza sull’isola di una zona naturalmente votata al crimine, sia di una serie di misurazioni sui crani di un centinaio di contadini del Sannio, raccolte nel 1907 in un volume dal titolo Ricerche sui contadini. Contributo allo studio antropologico ed economico delle classi povere. Convinto che fosse necessario guardare al povero «in carne ed ossa», così come l’antropologia criminale aveva fatto per l’uomo delinquente, Niceforo sosteneva che le classi non abbienti, compresi i contadini, presentavano numerosi caratteri di inferiorità, fisici e psichici, rispetto alle classi agiate: si trattava di anomalie legate tanto al contesto socioeconomico in cui vivevano quanto al patrimonio ereditario che le caratterizzava. Nella trattazione di Niceforo, il confine tra le due serie di fattori era poco marcato ed è quindi facilmente comprensibile che le sue posizioni attirassero le critiche di Napoleone Colajanni, che rifiutò radicalmente il concetto di razza mettendone in dubbio l’uniformità spaziale e temporale, e in seguito divenissero il bersaglio degli aspri giudizi di Gramsci, che lo avrebbe accusato (non solo lui, per la verità, ma anche Giuseppe Sergi, Enrico Ferri, Paolo Orano e i dirigenti tutti del partito socialista) di aver contribuito a diffondere tra le classi popolari dell’Italia settentrionale la convinzione che il Mezzogiorno fosse «la palla di piombo, che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia» e che gli abitanti del Meridione fossero «biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale».

Per concludere, si ha l’impressione che nel libro di Prosperi convivano almeno due tendenze. Da una parte, la piena coscienza della lontananza per un tempo e un mondo che ci appaiono «una presenza familiare solo se la misuriamo con le generazioni dei nostri personali antenati» (p. xviii) e che a fatica possono essere inseriti in quella che si è soliti chiamare “storia contemporanea”; dall’altra, un’intimità profonda con l’Italia preindustriale, un’intimità che si colora però di toni nient’affatto nostalgici, forse grazie a quella “pietà” che dovrebbe sempre contraddistinguere gli studi storici, nei quali, come ha scritto anni fa lo stesso Prosperi, «non si può prescindere da una fondamentale attitudine di interrogazione rispettosa delle tracce del passato, che deriva dalla volontà di tutelare la memoria come unica garanzia della continuità della vita».

Dati aggiuntivi

Autore
Anno pubblicazione 2019
Recensito da
Anno recensione 2019
ISBN 9788806240097
Comune Torino
Pagine 324
Editore