Oltre la rappresentazione

Lo statuto delle immagini nell'arte contemporanea

  • Michele Dantini

    Professore di Storia dell’arte contemporanea – Università per Stranieri di Perugia

  • venerdì 04 Dicembre 2015 - 17.30
Centro Culturale

Video integrale

Gli anni Sessanta modificano profondamente tecniche, stili e percezione sociale dell’arte. Costituiscono un decennio estremamente differenziato per indirizzi e aree geografiche di riferimento, con fratture o trasformazioni profonde, in parte riflesso della crescente politicizzazione dell’opinione pubblica occidentale e di eventi storici chiave, come la guerra del Vietnam. Considerati sotto un profilo strettamente artistico-culturale, segnano il momento iniziale nella serie di esplorazioni, riletture e appropriazioni delle avanguardie storiche caratterizzante i decenni successivi. Sia in Europa sia negli Stati Uniti si affermano, già sul finire degli anni Cinquanta, tendenze antipittoriche che stabiliscono un deciso distacco da art brut, informale e espressionismo astratto. Si dipingono monocromi, si riscopre il ready-made duchampiano: sono in auge ironia e distaccata eleganza, l’interesse è per opere che si sviluppino autonomamente, come attraverso processi, in assenza di interventi esterni, abilità o “psicologia” autoriale.
È soprattutto a New York che il cambiamento di gusto si accompagna a un’aggressiva presa di posizione contro la generazione precedente: ne sono bersaglio, con Clement Greenberg, critico e teorico, i pittori più gestuali dell’espressionismo astratto, Yves Kline e Willem de Kooning. In Jasper Johns o (ancor più) in Robert Rauschenberg il rapporto con la tradizione modernista europea diviene meno obbligato e vincolante: se per Greenberg operare all’interno di una tecnica particolare significava portare quella stessa tecnica, pittura o scultura, poniamo, alla sua estrema «purezza e indipendenza» attraverso un ininterrotto processo di correzione, le composizioni dei giovani artisti si popolano adesso ludicamente di immagini tratte dai media come anche dalla cultura popolare americana, oppure sono attraversate da micronarrazioni personali. Esiste una parziale continuità, sotto il profilo del comune atteggiamento antiteorico, tra neo-dada e pop: fumetti, divi del cinema e cibi in scatola alludono al mondo non teorizzabile per eccellenza dei desideri privati, dei piccoli feticismi quotidiani, di riti e appagamenti lievemente regressivi. Del tutto pop, tuttavia, e specificamente connessa a Oldenburg e Warhol è l’attitudine antiestetica, particolarmente corrosiva. A partire dal 1963 Warhol si volge peraltro con interesse sempre crescente al cinema e al rock, mostrando concretamente, sul piano delle strategie oltreché dell’impegno personale, la scelta di riferirsi a un pubblico non tradizionale. Dal punto di vista di collezionisti, intenditori d’arte e frequentatori del museo modernista, la magnificazione su tela di una bottiglietta di Coca Cola, di una salsa di pomodoro o di una scritta pubblicitaria risulta intollerabile perché trascura elementari norme di competenza e controllo culturale: già per Duchamp, peraltro, il ready made equivaleva «alla totale assenza di buono o cattivo gusto, di fatto a una completa anestesia». […]
A partire dai tardi anni Sessanta negli Stati Uniti si affermano orientamenti post-minimal (nel 1968 Morris propone la definizione Anti-form): l’enfasi è adesso non sul modulo compatto e chiuso, sullo standard industriale, ma sull’incompiutezza, il disequilibrio, il cedimento strutturale, le linee di frattura. Gli artisti associatisi attorno al movimento Earthworks propongono cumuli di detriti, rocce, installazioni in terra ed erba, flussi di vapore: si tratta di creare situazioni instabili con materiali organici o di scarto, negare i requisiti di permanenza, coesione, solidità tradizionalmente associati all’opera d’arte, mobilitare il pubblico. Se in un primo tempo si portano lembi di paesaggio naturale o industriale in galleria, in un secondo tempo artisti come Smithson, De Maria, Oppenheim, Heizer scelgono di intervenire direttamente sul paesaggio, all’esterno degli spazi istituzionali dell’arte e della cultura, scegliendo contesti naturali per lo più desertici o semidesertici per progetti spesso in scala monumentale, realizzati attraverso un impressionante dispiegamento di mezzi meccanici: avvallamenti artificiali, sculture-tempio, campi di energia, nastri di asfalto, roccia e detriti che si avvolgono a spirale nelle acque violette di laghi salati.

(da M. Dantini, Arte contemporanea. Dalle avanguardie a oggi, Firenze, Giunti, 2005, pp. 138-140)

(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)

Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.

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