L’Europa nella rivoluzione demografica

Le politiche sociali ed economiche nell’Unione allargata

  • mercoledì 02 Aprile 2003 - 17,30
Centro Culturale

La popolazione europea, pur perdendo peso nel contesto mondiale, è cresciuta da 401 a 548 milioni nella prima metà del XX secolo. Nel mezzo secolo successivo, chiuso nel 2000, le popolazione è aumentata di un altro terzo, arrivando a 727 milioni circa, ma il ciclo di crescita è andato attenuandosi fino a raggiungere tassi di incremento prossimi allo zero negli ultimi anni, conseguenza della forte caduta della natalità, adesso ovunque inferiore al livello che consente il rimpiazzo tra generazioni. In mezzo secolo, cioè, si è registrata una crescita, oggi esaurita, di 180 milioni di abitanti, parte finale di quel ciclo di sviluppo straordinario di iniziato con la Rivoluzione industriale. Un ciclo che ha moltiplicato per quattro la popolazione del continente e per almeno dodici il reddito reale pro capite, che ha ridotto gli spazi aperti e moltiplicato, per un fattore ignoto ma sicuramente molto grande, gli spazi edificati, cementificati, umanizzati; un ciclo che, in definitiva, ha riempito il continente di persone e manufatti.
Nessuno più di me, con molti decenni di dimestichezza con il gioco delle quantità, è prudente nel maneggiare le previsioni, anche se la demografia ha un notevole grado di inerzia che consente, entro certi limiti, di antivedere il futuro. Mi appoggio alle previsioni elaborate e correntemente aggiornate dalle Nazioni Unite, che descrivono l’itinerario atteso delle popolazioni di Stati e regioni del mondo nell’orizzonte di mezzo secolo, secondo ipotesi ragionevoli e condivise dalla gran maggioranza degli studiosi. Queste previsioni annunciano una popolazione europea di 603 milioni nel 2050, 124 milioni di persone in meno rispetto ad oggi nell’ipotesi, certo del tutto irreale come poi dirò, che l’Europa guadagni un saldo migratorio pari a circa 400 mila unità all’anno (meno della metà del saldo annuo dell’ultimo decennio). Aggiungo un solo altro dato, assai significativo: l’età mediana degli europei era, verso il 1950, 29 anni; è oggi pari a 38 e sarà pari a 49 nel 2050. Naturalmente l’Europa non è uniforme ed esistono sensibili variazioni attorno a questa generale tendenza . Senza entrare nel dettaglio si può dire che la depressione demografica – intendendo con questo termine l’incapacità delle generazioni di “sostituirsi” aritmeticamente l’una all’altra, determinando quindi una maggiore o minore diminuzione di popolazione – è meno accentuata nell’Europa del nord – Gran Bretagna, Paesi scandinavi, Francia – e più acuta in quella centrale e mediterranea – Germania, Penisola iberica, Italia -; la depressione rischia poi di essere gravissima per le popolazioni della defunta Unione Sovietica, solo che la situazione attuale si prolunghi ancora per qualche anno.
In altro contesto, ho definito il cambio che stiamo vivendo come una transizione da una società con abbondanza di risorse umane ad una – quella dei prossimi decenni – che dovrà sopravvivere e prosperare nella scarsità di queste risorse. Un mutamento che, a cascata, ne indurrà altri di notevole rilevanza. E, prima di volgere il discorso alle implicazioni di questo mutamento, ritorno per un momento ai confronti planetari: tra i dieci paesi più popolosi del mondo, nel 1950 ve n’erano quattro europei – Russia (nello spazio dell’attuale Federazione), Germania (unificata), Gran Bretagna e Italia -; solo la Federazione russa sopravvive tra i primi dieci oggi, ma anch’essa sarà uscita di classifica nel 2050.
Naturalmente, il numero delle persone è solo una cornice aritmetica – sia pure indispensabile – nella quale si colloca una collettività – Paese, regione o continente. Una somma astratta di cultura e idee, capitale umano e capitale fisico, benessere di vita e reddito pro capite non è fattibile, eppure è quella che conta. È, in fondo, il concetto elusivo di “ricchezza delle nazioni” al quale si riferiva Adam Smith più di due secoli fa. Ma tra numero di persone e questa astratta somma o ricchezza esistono, ovviamente, associazioni e interazioni che non possono essere trascurate. Molti sostengono che una diminuzione del numero – in un’Europa quadruplicata negli ultimi duecento anni – può portare vantaggi per l’alleggerimento delle tensioni ambientali che ne conseguirebbe, con il recupero di spazi e di qualità della vita oggi perduti per l’eccessiva concentrazione umana. Sarei anch’io di quest’opinione se la diminuzione avvenisse con un taglio indiscriminato e proporzionale per giovani, adulti e vecchi, lasciando inalterata, o quasi, la struttura per età. Ma com’è ben noto così non è: il taglio – stando alle ipotesi – sarà forte per giovani e adulti, mentre per i vecchi vi sarà un cospicuo aumento: se questo avverrà, ne seguirà uno sconquasso nei rapporti numerici – e quindi sociali, economici e culturali – tra generazioni. Assegno dei numeri a questo sconquasso: il rapporto tra anziani (60 anni e oltre) e giovani-adulti (20-60 anni) – passerebbe per l’intera Europa – dal 35 per cento attuale all’82 per cento del 2050, con conseguenze sul sistema che non mi dilungo a commentare.
(da M. Livi Bacci, L’Europa nella rivoluzione geo-demografica, in AA.VV., L’identità dell’Europa e delle sue radici, Soveria Mannelli, 2002, pp. 25-28)

Riferimenti Bibliografici


- M. Livi Bacci, Demografia della paura, in S. Ricossa (a cura di), Le paure del mondo industriale, Roma-Bari, 1990;
- D.H. Meadows, et al., Beyond the Limits. Global Collapse or a Sustainable Future?, London, 1992;
- D. Noin and R. Woods (eds.), The Changing Population of Europe, Oxford, 1993.

(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)

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