Immagini e merci

Il dispositivo estetico

  • venerdì 18 Marzo 2016 - 17.30
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Ciò che la modernità ha definito attraverso i canoni della disciplina filosofica chiamata estetica apparteneva nei tempi premoderni all’area del rito, della religione, del dono, dello scambio simbolico. Solo con la modernità la bellezza ha preso la forma estetica dell’opera, ha raggiunto cioè la sua configurazione canonica come opera d’arte. Parlare di arte antica è una locuzione di comodo, un anacronismo che copre diversità non commensurabili. Arte e arte moderna sono sinonimi, è stato detto a ragione. Lo spazio estetico come spazio libero e contemplativo, aperto e reso possibile dalla presenza dell’oggetto estetico, è tipicamente moderno. L’epoca dell’estetica si rivela allora singolarmente breve: pochi secoli, forse appena una manciata di decenni a cavallo tra la prima e la seconda modernità. Proiettiamo sul passato un mito creato appena ieri. E oggi l’erosione della forma ci porta necessariamente a distinguere tra l’estetica come specifica disciplina e l’estetico come attributo o carattere antropologico del presente. Tuttavia non basta prendere atto che l’estetica deve rinunciare alla sua esclusività filosofica per ibridarsi con altre scienze umane, occorre aggiungere che dopo l’associazione con il rito e la religione, e dopo l’associazione con l’arte, il bello presenta la sua ulteriore configurazione: l’associazione con l’economico. Régis Debray anticipava un’osservazione di questo tenore: l’epoca dell’estetico come visuale, quello che Jean Baudrillard ha definito lo «stadio-video», è solidale con l’economia e con l’economicizzazione del mondo. L’economia diventa estetica come economia dei beni simbolici, economia delle esperienze oppure feeling economy, o ancora, come preferisco dire, economia dell’immaginario o fiction economy. L’estetica, però, diventa a sua volta economica, liberandosi del mito della propria libertà. La finzionalità è la possibilità di produrre esperienze che si sottraggono alla dicotomia vero-falso, apparenza-essenza, superficie-profondità e che diventano componenti fondamentali dei processi di valorizzazione. […] L’economia, dal punto di vista della merce e del consumo, è dunque finzionale, nel senso di immaginaria, raccogliendo e mettendo alla prova il lessico concettuale che Slavoj Zizek riprende a sua volta da Lacan. È certo un’economia del desiderio, come affermano i neomarginalisti; il suo prodotto è un oggetto mediale narrativizzato dalla brand e codificato nei lifestyle. Ma non è immaginaria nel senso di «opposta al reale», come ci indurrebbe a pensare la direzione critica marxiana; semmai nel senso di «creatrice di realtà», ma al di là del vero e del falso. È un’economia globale, opposta all’economia della produzione localizzata nel punto fisico di una fabbrica o di qualsiasi luogo di produzione. Ed è differenziale, cioè differenziante in opposizione alla tonalità omologante di certe visioni della globalizzazione. Infine è estetica, perché produce beni la cui apparenza è fondamentale al valore e produce piacere o meglio godimento (enjoyment), riprendendo una delle caratteristiche istituzionali dell’oggetto estetico e dell’atto estetico. Il suo processo di valorizzazione oppone un carattere percettivo, un apparire, un tratto di «frivolezza» al severo tratto strutturale dell’economia politica classica. C’è dunque un’economia finzionale e c’è un capitalismo dell’immaginario, una capitalizzazione, una messa-a-profitto della capacità di finzione degli esseri umani.

 

(da F. Carmagnola, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 6-7, 23-24)*

(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)

Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.

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