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«Mai uno potrà essere equivalente a molti!» afferma perentoriamente il protagonista dell’Edipo re, nel passaggio (v. 845) che prelude all’imminente catastrofe tragica, e che segna più in generale la sorte dell’intera dinastia dei Labdacidi, fino al compimento luttuoso dell’Antigone. A formulare questa recisa affermazione, del cui riferimento riflessivo egli non è ancora consapevole, è proprio colui che pure – unico tra i mortali – in precedenza aveva saputo risolvere l’enigma posto dalla Sfinge, indicando l’animale (l’uomo) che «restando sempre lo stesso, è a due, a tre, a quattro piedi» (Diodoro Siculo, IV, 64). Proprio Edipo che è, fin dal nome, intrinsecamente uno e molti, oida-pous e oidos-pous, bambino maledetto e infallibile solutore di enigmi, padre e fratello dei suoi figli, sposo e figlio di sua madre, piaga infetta e salvatore della sua città, simile agli dèi e uguale a nulla, legittimo basileus e tyrannos usurpatore – proprio Edipo esclude categoricamente che la stessa cosa possa essere uno e molti. Un paradosso del tutto analogo – o identico – sottende la serrata disamina che è condotta nel Parmenide di Platone, alla quale il vetusto Eleate e il giovane Socrate si dedicano, sospinti dalla necessità di affrontare anzitutto un problema, dalla cui soluzione dipende la possibilità stessa della filosofia.
Difatti, prima ancora di definire cosa sia la bellezza, o la giustizia, o il bene, o altri generi di cose, è indispensabile «orientarsi a quell’esercizio che è ritenuto inutile dai più», in quanto costituito di «vane ciarle», poiché, in caso contrario, inevitabilmente «la verità sfuggirà». Tale esercizio consiste anzitutto nell’esaminare l’assunto principale della posizione eleatica, «il tutto è uno» e «non è molteplice» (128b). […] Paradigma divino delle diverse “figure della duplicità” è Dioniso – l’immortale che muore, il simbolo stesso della contraddizione. Presente alle origini della saga tebana, come iniziatore di una lunga serie di vicende improntate alla ricorrenza della connessione identità-alterità, egli stesso scisso in una molteplicità di determinazioni duali, comprendenti la nascita e la morte, e inerenti alla sua peculiare personalità, Dioniso è il protagonista occulto dei due più importanti dialoghi dedicati da Platone al rapporto tra amore e conoscenza. Se nel Fedro egli compare collegato alla condizione di divina mania, dalla quale scaturisce quell’«arte bellissima per quale si discerne il futuro», nel Simposio il riferimento implicito al «dio notturno» accompagna gli snodi speculativi più importanti dell’indagine sulla natura di Eros. Il fatto stesso che il discorso «verace» sull’amore, come figlio di Poros e Penia, sia rivelato a Socrate da una sacerdotessa, esperta della mantica, e che lo stesso Eros sia presentato come un daimon, «mediatore» fra uomini e dèi, e infine identificato con la filosofia, in quanto distinta, ma insieme partecipe, di ignoranza (amanthia) e sapienza (sophia), dimostra fino a che punto l’analisi filosofica dell’amore si svolga nel contesto di un percorso misteriosofico ispirato dal «dio doppio». Si comprende, in questa prospettiva, per quale ragione la morte di una divinità, la cui specifica identità sia costituita da una relazione strutturale con l’alterità, la cui personalità risulti dalla tensione permanente fra aspetti contraddittori, fra loro inscindibili, non possa che avvenire nel momento in cui qualcosa rompa l’unità degli opposti, scomponga i symbola convergenti nella totalità dell’intero.
(da U. Curi, Endiadi. Figure della duplicità, Milano, Raffaello Cortina, 2015, pp. 1, 5-6)*
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