La tradizione dell'aconismo ebraico

  • Francesca Calabi

    Docente di Storia della filosofia tardo-antica - Università di Pavia

  • giovedì 11 Aprile 1996 - 17.00
Centro Studi Religiosi

A partire dalle formulazioni di Esodo (20,4-5), Levitico (26,1), Deuteronomio (5,8-9; 4,23; 16,22), che postulano il divieto di fare immagini, gran parte della tradizione ebraica è attestata su posizioni anti-iconiche. Le immagini appaiono fonte di idolatria e di commistione con i popoli stranieri. La condanna si estende poi in un divieto generalizzazto a prescindere dal possibile culto connessovi. Si presenta una varietà di posizioni, da quelle che escludono le immagini e soprattutto le statue perchè facilmente utilizzabili come idoli, a quelle che vedono nelle immagini i ritratti di potenti, di imperatori o di benemeriti dell’umanità cui vengono tributati omaggi e venerazione, a quelle che considerano le immagini simbolo di assimilazione ad abitudini straniere, a quelle, infine, che considerano l’immagine una fissazione di ciò che non può essere determinato e limitato, una “immagine visibile dell’invisibile (Filone A., Leg. 3,10), l'”immagine inanimata” di un essere vivente o addirittura della divinità.
Il divieto, variamente formulato, in testi biblici ed extra biblici del periodo del secondo Tempio, è poi ripreso ripetutamente in passi talmudici. Si ha inoltre un’applicazione pratica del divieto, riscontrabile in molte sinagoghe, prive di raffigurazioni di esseri animati e nell’assenza, per molti secoli, di opere pittoriche o scultoree di rilievo.
Il desiderio di ovviare alla mancanza di immagini induce alla ricerca di altre forme espressive che coronino il primato dell”espressione verbale. Così, in una cultura in cui fondamentale è il Libro e particolarmente significativa è la parola, la micrografia diviene ornamento e si hanno manoscritti stupendamente decorati da disegni costruiti sulla scrittura stessa.
Il divieto di raffigurazione pittorica, e ancor più scultorea, non implica, però, mancanza di immagini. Infatti queste hanno larghissima diffusione in tutta la letteratura ebraica sia biblica che rabbinica. Si tratta di immagini “mentali” che trovano espressione in forme letterarie, anzichè figurative. Così formulazioni quali “quale è un melo fra gli alberi del bosco, tale è l’amico mio fra i giovani. Io desidero sedermi alla sua ombra, e il suo frutto è dolce al mio palato” (Cantico 2,3), “Amica mia, tu sei tremenda come un esercito a bandiere spiegate (Cantico 6,4), “Egli ti coprirà con le sue penne, e sotto le sue ali troverai rifugio” (Salmo 91,4) propongono una superba ricchezza di immagini. Si tratta, cioè, di immagini che trovano espressione verbale, il che riconduce al tema della priorità dell’ascolto rispetto alla visione.
Il linguaggio figurato presente nella Bibbia è ampiamente utilizzato anche nella letteratura rabbinica ove frequente è il richiamo al mashal, l’esempio: come un re… come un palazzo…

Riferimenti Bibliografici


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Testi di riferimento per la lezione

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- NOLLI G., Il silenzio iconografico dell'Antico Testamento e la parola come sostituto, in VERDON T. (a cura di), L'arte e la Bibbia. Immagine come esegesi biblica, Biblia, Settimello (FI), 1992, pp. 79-85.*
- PRIGENT P., L'image dans le judaisme. Du II au VI siècle, Genève, 1991, pp. 9-21.

(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)

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