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La necessità di uscire dai localismi economici e dare nuovo slancio alle funzioni metropolitane si traduce nella formazione delle piattaforme produttive come prima istanza “lobal“, ovvero come dispositivo territoriale attraverso il quale i soggetti locali cominciano a elaborare strategie di accettazione della sfida globale. La capacità di attivare queste pratiche “lobal” dipende quindi dalla capacità del territorio di elaborare strategie di accesso, metabolizzazione e appropriazione dei flussi. Il che, evidentemente, ha a che fare, da una parte, con le lunghe derive storiche delle società locali e, dall’altra, con la maturazione di nuove élites capaci di traghettare i sistemi territoriali nella modernità. Oggi sono all’opera tre grandi cambiamenti “epocali”, tre grandi sfide che mettono in discussione i modelli di governo dell’economia consolidatisi nella lunga stagione dello Stato nazionale e interventista:
a) nuove logiche di competizione economica di mercato e nell’organizzazione dei processi di produzione delle merci;
b) nuove logiche di organizzazione dello spazio sociale tali da mettere in discussione il significato tradizionalmente attribuito al concetto di identità territoriale, non più frutto soltanto di processi di radicamento locale ma legato a uno spazio di rappresentazione i cui confini tendono a diluirsi e dilatarsi in una dimensione più globale;
c) nuove logiche di organizzazione della sfera politico-istituzionale in una duplice direzione, il passaggio di poteri e funzioni dallo Stato centrale a livelli istituzionali locali o sopranazionali e “il passaggio dallo Stato soggetto allo Stato funzione”.
Il primo aspetto riguarda il cambiamento dei modelli di accumulazione e di organizzazione della produzione. Per lo più per indicare queste due trasformazioni si tende a parlare – spesso indifferentemente – di modello del “capitalismo flessibile” oppure di transizione dal “fordismo” al “postfordismo”, in quest’ultimo caso quando l’accento viene posto maggiormente sulle forme organizzative della produzione. Possiamo indicare tre elementi di questa nuova “grande trasformazione” che hanno un legame diretto con il tema della governance dell’economia. In primo luogo, la globalizzazione intesa come processo di progressiva internazionalizzazione e interdipendenza tra economie. È un processo che ha nelle economie dei flussi transnazionali il suo centro propulsore. L’azione dei flussi economici sulle società locali produce in queste ultime strategie adattive, reattive o inerziali di cui il cambiamento dei modelli di governance costituisce uno degli elementi di fondo.
Il secondo aspetto è la crescente importanza delle componenti immateriali richieste nel processo produttivo e l’importanza delle tecnologie informatiche per rendere flessibile la produzione. Cresce il ruolo del capitale umano e dei saperi incorporati nel ciclo produttivo e conseguentemente la necessità per le imprese di accedere alle risorse scientifiche e tecnologiche prodotte dalle istituzioni della ricerca.
Il terzo aspetto: la destabilizzazione, l’apertura e la crescente competitività dell’ambiente di mercato delle imprese. Per “fare impresa” diventa necessario andare oltre il “saper fare” diffuso nei contesti locali e investire nel rafforzare l’organizzazione produttiva e la sua capacità di “leggere” mercati sempre più turbolenti. Sono questi alcuni dei processi che hanno condotto alla nascita di un ceto imprenditoriale e manageriale di “capitalisti delle reti”. Ceto anche in questo caso interessato da un’ambivalenza fondamentale. Da una parte, infatti, nel capitalismo delle reti si esalta l’intrinseca contraddizione tra una funzione di rilevanza pubblica – poiché insiste sulla gestione di risorse collettive, e di conseguenza le sue decisioni generano immediatamente effetti di sistema – e la natura giuridica di “domicilio privato”, le cui strategie rispondono a logiche di massimizzazione dei vantaggi posizionali. Dall’altra, il capitalismo delle reti acquista (può acquistare) piena coscienza del carattere “pubblico” implicito nel proprio ruolo, assumendo responsabilità generali in materia di sviluppo economico e coesione sociale, e aprirsi al confronto con gli attori territoriali.
(da A. Bonomi, Il rancore, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 111-113)*