I Veda

La relazione tra maestro e discepolo nelle tradizioni hindu

  • Antonio Rigopoulos

    Professore di Indologia e tibetologia - Università Ca’ Foscari di Venezia

  • venerdì 21 Gennaio 2022 - ore 17.30
Centro Studi Religiosi

Video integrale

Da tempi immemorabili la relazione maestro-discepolo costituisce l’asse portante dell’universo religioso indiano, il suo cuore pulsante. Se ne constata la persistenza, pur nelle inevitabili riconfigurazioni d’identità e funzioni, con il mutare delle situazioni storiche e dei contesti ideologici. È davvero impossibile esagerare l’importanza del maestro nelle religioni dell’India. In assenza di una autorità ecclesiale centrale, di istituzioni quali la Chiesa in Occidente su cui incardinare il magistero, il maestro è da sempre la guida autorevole, l’imprescindibile punto di riferimento. A un tempo, egli autentica e rinnova quel tesoro sapienziale di cui è viva incarnazione, la più alta testimonianza. All’interno di ognuna delle innumerevoli tradizioni, la necessità del maestro è indiscussa, essendo egli il ricevitore (dal proprio maestro) e il trasmettitore (per i discepoli e il successore ch’egli eleggerà) del sapere sacro in una linea di successione idealmente ininterrotta. La relazione maestro-discepolo fonda la comunicazione del sapere fin dall’ingresso nel Nord del subcontinente di popolazioni nomadi indo-arie – a partire dal 1400-1300 a.C. – provenienti dagli attuali Iran orientale, Afghanistan e Pakistan. Gli arya, come vennero ad autodefinirsi (lett. “nobile”: il termine designa in primis l’aristocrazia guerriera), giunsero nell’alta valle dell’Indo attraverso i valichi himalayani. Essi erano suddivisi in clan e la loro economia si basava prevalentemente sull’allevamento e la pastorizia. Ideologicamente, la nobiltà arya ruotava intorno alla pratica del sacrificio rituale (yajna): gli autoctoni a loro contrapposti (i dasa/dasyu, termine che in seguito designerà gli schiavi) sono etichettati spregiativamente quali a-yajvan (“non sacrificanti”), a-karman (“privi d’azione rituale”), a-deva (“senza Dio”, “empi”), a-brahman (“ignari della Parola sacra”). (…)

La composita congerie di materiali denominati Veda (“sapienza”) costituisce il cardine della civiltà e della “religione” degli arya, e anche il più antico documento sopravvissuto di una letteratura orale indoeuropea. Gli arya dovettero presto cancellare ogni memoria di essere penetrati in India provenienti da nord-ovest, in migrazioni successive. Di fatto, nei Veda non se ne fa cenno. La “rivelazione”/”audizione” degli inni vedici – non frutto d’uomo, ma autoestrinsecazione dell’Assoluto (Brahman) – sarebbe stata udita/vista in illo tempore da antichi “vati/veggenti”, i rsi, in virtù di una perfetta “sintonizzazione” contemplativa: questo è il dogma. Con l’utilizzo di raffinate mnemotecniche, i rsi avrebbero comunicato questa rivelazione di bocca in orecchio ai propri figli e discepoli. A loro volta, questi l’avrebbero tramandata oralmente all’interno dei propri lignaggi, mettendo in moto un’ininterrotta catena di trasmissione generazione dopo generazione. Sono dunque i rsi, questi venerandi poeti/cantori, a fondare l’auctoritas della figura magistrale.

La trasmissione per via orale dei Veda e, in generale, del patrimonio culturale brahmanico è di cruciale importanza: il primato dell’oralità sulla scrittura è indiscusso (solo dopo il 1000 si sarebbe iniziato a mettere per iscritto i “testi” vedici). Nel brahmanesimo la forma più alta del sapere è sempre e solo orale; alla scrittura è riservato un valore eminentemente pratico, di uso mondano e amministrativo (comunque inferiore). Per un campione dell’ortodossia quale il maestro Sankara (probabilmente vissuto intorno al VII secolo) solo il Suono/Parola è verità, mentre la scrittura appartiene tout court al dominio della falsità/irrealtà. La tradizione più antica contenuta nello Sata-patha Brahmana e poi variamente ripresa e arricchita parla di sette rsi originari: Visvamitra, Jamadagni, Bharadvaja, Gotama, Atri, Vasistha e Kasyapa. Tramite la loro mediazione e quella dei loro successori “storici”, il patrimonio delle raccolte innologiche dei Veda si sarebbe preservato nei secoli con straordinaria, scrupolosa fedeltà, sillaba per sillaba, accento per accento. Il canone della ripetitività è intrinseco all’oralità. (…)

La rivelazione vedica, monopolio dei sacerdoti brahmani, si suddivide in tre sezioni. Si tratta della “triplice scienza” di Rg Veda, Sama Veda e Yajur Veda, cui in prosieguo di tempo se n’è aggiunta una quarta, l’Atharva Veda, incorporante formule, benedizioni e maledizioni da impiegarsi in rituali magico-apotropaici. Il Veda nel suo complesso è un “testo” per l’azione; i suoi innumerevoli dèi, i suoi miti e le sue speculazioni sono funzionali all’atto rituale, di cui componente essenziale è la Voce/Parola. Clan e famiglie sacerdotali discendenti da celebri bardi/veggenti erano specializzati sin nei più minuti dettagli dei complessi rituali sacrificali. È da questi ambiti di specialisti del sacro che evolsero le “branche” o scuole del sapere vedico, le sakha, ciascuna trasmettente oralmente il proprio sapere di generazione in generazione. L’identità sociale di ogni brahmano era determinata dalla sua affiliazione a una di queste scuole.

 

(da A. Rigopoulos, Guru. Il fondamento della civiltà dell’India, Roma, Carocci, 2009, pp. 41-45)*

(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)

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