Castellucci legge da Robert Walser

  • lunedì 02 Aprile 2007 - 21.00
VivaVoce

A che proposito ho scelto Robert Walser

In Robert Walser l'atteggiamento della scrittura è quello della parresia.
"Ciò che si raggiunge è l'umiltà e la mortificazione, il distacco nei confronti di sé e la costituzione di un rapporto verso di sé che tende alla distrazione della forma del sé. L'epicentro di una certezza che sorge dalla stessa precarietà dell'esistenza, dal vuoto che ricostituisce sempre di nuovo" (Elettra Stimilli)
E' una parresia totalmente atea quella di Robert Walser, una parresia che lo situa nel dopo. La morsa che attanaglia la sua esistenza è quella comune agli uomini che, per la società, non funzionano, e rimangono indietro, eppure la tagliola non suscita sgomento, rabbia, rancore, ma, al contrario, accondiscendenza nei confronti del mondo che si dispiega sempre come un panorama ogni volta nuovo. Egli non protesta, né decora gli artigli della morsa per poterla meglio sopportare, ma fa qualcosa che le toglie alla radice il potere di assoggettarlo: la ammette. Egli finisce con il volere ciò che gli capita e ciò che subisce, ma se fa coincidere ciò che cerca con ciò che trova, non è per un sentimento di rassegnazione anticipata, bensì di anticipata vittoria. Qualunque cosa accada, Walser è pronto, perché si trova già nel dopo, quando, cioè, tutto è finito.
Gli alberi, continuamente presenti nella sua letteratura, non protestano, direbbe Walser, perché sono alieni al mistero, all'insondabile di ciò che accade, alla tragedia. La commedia, piuttosto, è più adatta a spiegare la loro vita di linfa e anidride, il loro mutare nell'inerzia priva di drammi sentimentali.
Ciò che sembra ironia, nella stesura di una scrittura azzimata da maestro antiquato, in verità mina l'abnorme potenza del destino, che, proprio per tali armi modeste, viene ridimensionato a spauracchio addomesticabile. Tutto è già superato, così Walser può occuparsi del dopo.
Il dopo costringe alla novità: il gesto attivo singolare, demanda alle cose che lo circondano la conduzione del gioco. Le cose allora ridiventano tènere, nella pensosità di un mattino di lavoro, quel lavoro -intendo- inerziale, come quello del cuore battente o della clorofilla. Le cose ridiventano nuove. Anche le vecchie. Il rinnovamento è una condizione per chi si trova, o si pone, nel dopo. Non importa sapere quale sia il prima che lo causa. In fondo, non c'è neppure un prima, in questa deliberata rottura di ricominciamento. Non c'è più legame con un qualsiasi prima.
Il dopo è quando gli oggetti prendono il primo posto sulla scena. Le cose, valgono; e pre-valgono non perché il soggetto si eclissi, ma, anzi, perché c'è. E c'è all'ennesima potenza, perché è solo.

Claudia Castellucci

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