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Anche il buddhismo si propone come una Via verso la liberazione: il Buddha stesso definì il suo insegnamento come un percorso interiore volto a verificare con la propria diretta, personale esperienza quella verità cui lui era già giunto.
La Via buddhista assume il carattere di un codice etico inteso soprattutto come una terapeutica spirituale verso la rinuncia a ogni legame del ciclo delle rinascite, verso un distacco equanime e consapevole, verso l’abbandono dell’illusione del proprio io. Ma necessita di un contesto adeguato, sia di carattere psicologico sia di carattere sociale, che permetta di praticare nella calma le complesse forme di meditazione. E per lungo tempo si pensò che solo la vita monastica rappresentasse la scelta ideale per realizzare la salvezza. Era una «via di mezzo», una mediazione tra due opposte dinamiche del sacro: da una parte il radicale rifiuto del mondo e la solitaria ricerca interiore nell’ascesi, e dall’altra l’andare nel mondo, il farsi carico delle quotidiane angosce degli uomini in nome dei valori della compassione e dell’altruismo.
La vita monastica poneva l’enfasi sulla solitudine, non solo perché i monaci avevano abbandonato il mondo e rinunciato a ogni legame familiare, ma anche perché nel silenzio e nel raccoglimento cercavano di aprire la mente all’assoluto. Ma questa solitudine trovava un suo equilibrio stemperandosi all’interno di una comunità. Questa comunità a sua volta doveva vivere vicino a insediamenti urbani.
I rinuncianti erano distinti e separati dalla società attraverso vari «segni» che contraddistinguevano la loro alterità, come i riti di iniziazione, una speciale disciplina, una veste particolare e ben riconoscibile, alcune modificazioni del corpo come la tonsura, una particolare dieta. Ma non potevano dimenticare gli altri uomini che erano nell’ignoranza e nell’illusione e quindi andavano nel mondo. L’ideale della compassione verso tutti gli esseri senzienti, cui si votavano, faceva loro obbligo di predicare la dottrina a coloro che cercavano una speranza di salvezza.
Per quanto riguarda il Giappone, si può parlare di un monachesimo antico, di un monachesimo medievale, tardo medievale e moderno, con ben specifiche caratteristiche, che sono diverse dal primigenio modello vissuto dal Maestro tanti secoli prima: ma la discontinuità non è da interpretare come una «degenerazione» della forma «iniziale», ipostatizzata come perfetta. È piuttosto il risultato dell’impegno di tradurre negli schemi ideologici della propria tradizione un’esperienza cosi innovativa come il monachesimo.
L’originalità – e in certi momenti, anche la trasgressività – delle forme storiche del monachesimo giapponese sono state di fatto l’espressione di una ricerca spirituale molto coraggiosa, e mai esaurita, che ogni volta ha messo in discussione il rapporto fra la pratica e l’illuminazione, fra la forza della Legge e la libertà della fede.
Il percorso monastico poteva iniziare anche in giovane età. Dopo alcuni anni di vita nella comunità, alla presenza di almeno dieci monaci, con una cerimonia semplice eppure solenne, il novizio riceveva la piena ordinazione.
La vita di un biku era fatta di silenzio, scandita dalla meditazione, dalla lettura corale dei sutra, dallo studio della tradizione teoretica della comunità, dai riti pubblici di venerazione di buddha e kami, dalla questua. Era regolata da norme severe – duecentocinquanta, secondo il codice dharmaguptaka – che disciplinavano minuziosamente il comportamento del monaco all’interno e all’esterno del monastero, fino a definire i gesti del suo vissuto quotidiano, in modo da creare un esercizio continuo di concentrazione e di autocontrollo della mente.
(da M. Raveri, Il pensiero giapponese classico, Torino, Einaudi, 2014, pp. 109-112)*
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