L'azione e i confini dell'intenzionalità

  • Jocelyn Benoist

    Professore di Teoria della conoscenza e filosofia contemporanea - Université Paris Sorbonne

  • martedì 22 Giugno 2010 - 17.30
Scuola Alti Studi

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Vorrei provare a prendere le distanze da una posizione che oggi sembra andare tanto di moda parlando di filosofia dell’azione. Si tratta di ciò che definirei “intenzionalismo pratico”: di qualche cosa che si caratterizza per affrontare il problema dell’azione esclusivamente in termini di intenzionalità. Il registro dell’azione sarebbe dunque il registro dell’intenzionalità: l’azione coinciderebbe con una relazione interna a una certa intenzione. Peccato però che una frase di questo tipo si presti a qualche equivoco. Certo, la sua interpretazione dipende dal senso che viene conferito alla parola “intenzionalità”. Ci sono quindi tanti intenzionalismi quante sono le interpretazioni di intenzionalità (ci potrebbe essere un intenzionalismo egologico come quello di Husserl, oppure un intenzionalismo olistico come quello del pensatore francese contemporaneo Vincent Descombes). Al livello nel quale ci situeremo noi, distinzioni di questo tipo potrebbero perfino apparire, almeno a un primo approccio, trascurabili. Facciamo un esempio: non è certo perché alcuni pensatori hanno esternalizzato l’intenzionalità che si può dire che questo concetto cambi natura e riesca a evitare quelle difficoltà che gli sono consustanziali. Quanto all’idea di intenzionalità, sembra che vi siano alcuni limiti intrinseci a questa nozione. Fa problema la struttura stessa dell’intenzionalità. Allo stesso modo occorre chiedersi se  possa avere o meno un senso ragionare in termini di intenzionalità.

La mia finalità non è quindi di rigettare in blocco la prospettiva intenzionalista, negando l’intenzionalità dell’azione – negando cioé che l’intenzionalità possa essere un elemento determinante ed essenziale di ciò che noi chiamiamo “azione”. La mia finalità consiste piuttosto nel prendere l’azione sul serio, leggendola in una tensione costante con la realtà e riconoscendola per quel che effettivamente diviene una volta che sia stata ricondotta al suo contesto proprio: intendo considerare l’azione come qualcosa che fa problema.

Ogni azione è un intreccio con il mondo e nel mondo. Essa dunque attesta – e allo stesso tempo si nutre – di tutti i rischi di un tale intreccio. Cambia volto al variare del cammino che compie nel mondo e delle sconfitte che la colpiscono – sconfitte che attestano come non tutto sia intenzionale. Correndo persino il rischio, alla fine, di smarrire il proprio aspetto qualificante. Non si possono consegnare impunemente le nostre intenzioni al mondo. Occorre essere pronti ad accettare che questo “mondo” riacquisti tutti i suoi diritti, riassorbendo le nostre stesse finalità nel suo silenzio. Ecco quel che vorrei dire a tutti i sostenitori “realisti” dell’intenzionalità ai quali pure va tutta la mia simpatia. “Fate ancora uno sforzo – un piccolo sforzo – per essere realisti!”. Anche se talvolta è proprio un piccolo sforzo come questo che scatena forze più grandi di quelle che non si riesca poi a gestire: ed è proprio attraverso questi pertugi che il reale si insinua (nelle nostre vite).

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