Il mito di don Giovanni ha bisogno di poca presentazione, essendo uno dei più appariscenti e dei più raccontati.
In principio c’è la commedia di Tirso de Molina, El burlador de Sivilla (L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra) del 1625 circa; e poi un mare di don Giovanni in tutte le lingue d’Europa, avventurosi, viaggiatori e spadaccini, specialisti nell’ingannare le femmine (avvicinandole al buio al posto dell’eventuale fidanzato legittimo), e specialisti nel numero esorbitante di concupite (il che dà luogo al buffonesco catalogo di Mozart e Da Ponte “ma in Ispagna son già mille e tre”).
Con il don Giovanni di Byron (1818-23) il mito diventa sinonimo della giovinezza inquieta, mondana e instancabile, che però, come ogni stagione della vita, contiene già il suo rapido esaurimento. E l’Eugenio Onegin (1823-30) di Puškin, il grande poeta russo, sembra essere appunto il capitolo dopo; quello che segue la prima e furente, byroniana e affamata giovinezza. C’è là infatti un don Giovanni in esaurimento nervoso, che non ne può più; malato di noia, malinconia, misantropia (e misoginia), che non coglie deliberatamente ciò che di femminile la vita gli offre, per poi tormentarsi su ciò che non ha colto e, cogliere, non potrà più.
Dell’Eugenio Onegin (romanzo in versi, come lo chiama Puškin) esiste, tra le varie e spente traduzioni che sono state fatte, la vecchia e bellissima traduzione di Ettore Lo Gatto, in versi e in rima, uscita nel 1936 (oggi credo introvabile). È questa che farò sentire, perché Puškin in essa un po’ vive ancora, e non è solo un oggetto sepolto nella storia della letteratura.
Ermanno Cavazzoni