L'«invenzione» dei poveri

Virtù pubblica e carità tra mondo classico e cristianesimo

  • Valerio Neri

    Professore di Storia della tarda antichità - Università di Bologna

  • martedì 28 Ottobre 2008 - 17.30
Centro Studi Religiosi

"Invenzione" dei poveri non può significare naturalmente che i poveri come ceto sociale non esistessero prima della loro rappresentazione nei testi cristiani e nemmeno che la categoria sociologica dei poveri e della povertà sia una creazione cristiana. Certo è però che la cultura cristiana impone progressivamente una lettura della società antica in cui l’articolazione binaria di natura prevalentemente economicapoveri- ricchi, pauperes-divites, che si sovrappone all’articolazione binaria prevalentemente sociale potenti-umili, potentes-humiles o tenues, prende il sopravvento sulla tradizionale bipartizione politica nobiltà-plebe. In questa, che è un’opposizione di ruoli sociali più che una descrizione dell’intera società, viene marginalizzata un’articolazione ternaria della società, che comprenda anche una classe media, i mediocres. I pauperes che nella letteratura profana costituivano un ceto caratterizzato da una sobra autosufficienza, composto prevalentemente da piccoli proprietari, designa ora gli assistiti dalla chiesa e dai fedeli, una gamma ampia di situazioni sociali, che non comprende esclusivamente i veri poveri.
Questa categorizzazione sociale è sostenuta dalla centralità che nell’etica sociale cristiana assume l’elemosina, come dovere generalizzato di tutto il popolo cristiano, ma soprattutto dei ricchi, strumento essenziale di salvezza. Nella cultura classica invece il soccorso ai poveri estremi, agli egentes o ai mendici,  costituiva un elementare manifestazione di umanità, di irrilevante valore etico.
La chiesa rivendica a sé, come istituzione, un ruolo centrale nella gestione dell’assistenza, che lo stato le riconosce, spesso in contraddizione con le pratiche ed i valori dell’evergetismo tradizionale. Le proprietà ecclesiastiche vengono designate come bona pauperum e coloro che vi attentavano come necatores pauperum, anche se, nella ripartizione dell’impiego dei redditi ecclesiastici disegnato dalla chiesa romana, solo un quarto dei proventi è riservata all’assistenza ai poveri, mentre i rimanenti tre quarti dovrebbero essere riservati, in parti uguali, al vescovo, al clero ed alle spese di culto. Le chiese sollecitano dunque lasciti ereditari e donazioni dai privati e dallo stato stesso lasciando per lo più ai singoli il sostegno alle situazioni estreme. Le chiese esercitano altresì una faticosa opera di educazione all’attenzione ed al rispetto per i poveri, pur senza affrancarsi completamente dai pregiudizi tradizionali, come dimostra l’attenzione privilegiata per gli impoveriti ed i pauperes verecondi.

Riferimenti Bibliografici

- E. Patlagean, Pauvreté économique et pauvreté sociale à Byzance (IV-Vie siècle), Paris 1977;
- M. Prell, Sozialökonomische Untersuchungen zur Armut im antiken Rom von den Gracchen bis Kaiser Diokletian, Stuttgart 1997;
- V. Neri, I marginali nell'Occidente tardoantico. Poveri, infames e criminali nella nascente società cristiana, Bari 1998;*
- P. Brown, Poverty and leadership in the later Roman empire, Hanover 2002;
- C. Freu, Les figures du pauvre dans les sources italiennes de l'antiquité tardive, Paris 2007.

(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)

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