Fidarsi del potere

La legittimazione delle élites nella teoria della rappresentanza politica

  • Pietro Costa

    Docente di Storia del diritto medievale e moderno - Università di Firenze

  • venerdì 03 Dicembre 2004 - 17.30
Centro Culturale

Audio integrale

(1) Il problema: è possibile rintracciare nella cultura politica, non solo medievale ma anche moderna, il tema del riconoscimento della qualità delle persone e l’esigenza dell’affidamento? (2) Il momento della fides nel rapporto feudale (3) La civitas e la concezione medievale della rappresentanza: la differenziazione degli individui e delle loro “qualità” (4) La rappresentanza moderna: la tensione tra differenze ed eguaglianza (5) La proprietà come criterio di differenziazione delle “qualità” (6) Il genere come criterio di differenziazione delle “qualità” (7) L’affidamento alla personalità “eccezionale”: il cesarismo (8) Il culto del “capo” nei totalitarismi novecenteschi (9) Cenni al problema della “personalizzazione del potere” nel secondo dopoguerra.

La democrazia mantiene, per Hans Kelsen, un elevato tasso di “illusorietà”: il popolo della democrazia, il popolo creatore dell’ordinamento, non può coincidere con il popolo oggetto del potere; i titolari dei diritti politici costituiscono solo una frazione degli individui sottoposti all’ordine statale e, per quanto si estenda la cerchia dei “cittadini attivi”, non si arriverà mai a colmare la differenza fra i due “popoli”, abitualmente dissimulata dagli “ideologi della democrazia”. La tesi che nei regimi democratici “tutti” partecipano alla creazione dell’ordinamento è una consolatoria finzione: in primo luogo perchè nelle più varie democrazie si propongono sempre di nuovo criteri di esclusione (che colpiscono a volta a volta gli schiavi, le donne, i bambini, gli stranieri), senza che però il carattere “democratico” dell’ordinamento venga seriamente contestato […]. Data la complessità dell’odierna realtà sociale, la creazione dell’ordinamento non è realmente affidata al popolo, nemmeno a tutti i cittadini attivi, ma è gestita da un gruppo ristretto di “rappresentanti” che agiscono in nome della “sovranità popolare”. Si aggrava così il contrasto con il carattere “carattere assoluto dell’idea democratica di libertà”, per la quale «la volontà statale dovrebbe essere formata direttamente da una sola e medesima assemblea di tutti gli individui che hanno diritto al voto». Per attenuare la delusione provocata da questa limitazione della libertà si fa ricorso all’idea di rappresentanza: si suppone cioè che l’istituzione elettiva, il parlamento, sia solo un rappresentante del popolo […]. Il parlamento, dunque, non si fonda sulla rappresentanza, che appare una mera “finzione” legittimante, ma deriva dalla dinamica stessa della società moderna: nelle società complesse esiste comunque la tendenza, anche là dove la forma di governo non è democratica ma autocratica, a ricorrere ad assemblee, consigli, organi collegiali investiti di responsabilità di governo. A imporre il parlamentarismo è dunque il fenomeno, caratteristico della società moderna, della moltiplicazione delle competenze e della divisione del lavoro.
(P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. Vol. IV: L’età dei totalitarismi e della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 41-43).*

Riferimenti Bibliografici

- B. Accarino, Rappresentanza, Bologna, il Mulino, 1999;* - R.A. Dahl, Sulla democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2000;* - G. Duso, La rappresentanza politica, Milano, Franco Angeli, 2003;* - L. Canfora, La democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2004;* - D. Fisichella, La rappresentanza politica, Roma-Bari, Laterza, 1996; - G. Leibholz, La rappresentazione nella democrazia, Milano, Giuffrè, 1989.*

(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)

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