legge Abelardo e Eloisa

  • lunedì 17 Marzo 2003 - 21
VivaVoce

“O mio amato, quanto meglio sarebbe che il tuo amore fosse un po’ meno sicuro di me! Sarebbe forse più sollecito. Ma è perché ti ho dato tanta sicurezza che ora soffro della tua noncuranza. Ti supplico, ricordati di quel che ho fatto, e renditi conto che hai dei doveri verso di me. Finché ho goduto con te i piaceri carnali poteva a molti sembrare incerto se agivo per amore o per libidine. Ma ora che tutto è finito risulta chiaro quale animo avevo fin dal principio. Mi sono privata di tutti i piaceri per ubbidire al tuo cenno e nulla mi sono riservata, se non di essere, soprattutto ora, in questa situazione, tua. Pensa dunque quanto è iniquo da parte tua dare così poco, anzi nulla, a chi si merita tanto, specialmente considerando quanto poco mi daresti e quanto è facile per te il darlo.
Per quel Dio a cui ti offristi, ti scongiuro che tu mi conceda, nel modo che ti è possibile, la tua presenza, cioè che mi dia un po’ di consolazione rispondendo a questa lettera, almeno per darmi forza di dedicarmi a Dio con più zelo. Quando un tempo mi desideravi per godere piaceri terreni, mi scrivevi spesso, e con le tue canzoni ponevi la tua Eloisa sulla bocca di tutti, in tutte le piazze, in ogni casa risuonava il mio nome. Se ora tu mi esortassi a Dio, quanto più giusto sarebbe di quando mi incitavi al piacere! Ti supplico, pensa a quel che mi devi, considera quel che ti chiedo. Con queste brevi parole metto fine alla mia lunga lettera: addio, o mio unico.”
(Abelardo ed Eloisa. Lettere, Milano, Einaudi, 1979, pp. 139-140)

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