La curiosità degli antichi e dei moderni: Thomas Hobbes

  • Gianenrico Paganini

    Professore di Storia della filosofia - Università del Piemonte Orientale

  • lunedì 20 Maggio 2019 - ore 17.30
Scuola Alti Studi

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Secondo Hobbes, a monte e prima della ragione, è una «passione» – la curiosità – a dare inizio negli uomini e solo negli uomini all’acquisizione di tutte le funzioni (il raziocinio come calcolo, la traduzione del discorso mentale in discorso verbale, quindi le definizioni e le scienze, il metodo) e di tutte le produzioni scientifiche, giuridiche, politiche, tecniche e religiose, che li distaccano dagli animali. Con questi ultimi gli uomini condividono le basi della psicologia (sensazione, memoria, immaginazione, deliberazione, volontà, ma anche knowledge, prudenza, discorso mentale), ma a partire dalla «curiosità» gli uomini sviluppano procedure che li portano sempre più lontani dalla semplice «prudenza». Assistiamo dunque con Hobbes ad una poderosa rivalutazione della curiosità, dopo che Descartes l’aveva esclusa dal catalogo delle passioni, a vantaggio dell’ammirazione. Anche quest’ultima compare nel Leviathan, ma ha una funzione per lo più ancillare rispetto alla curiosità. Mentre l’ammirazione è mossa soprattutto dalla «novelty» e ha per così dire la funzione di attirare l’attenzione su oggetti insoliti e rari, o, se frequenti, di difficile spiegazione, è alla curiosità che compete la ricerca delle cause o degli effetti, cioè il nucleo vero e proprio del sapere scientifico secondo Hobbes. […] La curiosità specificamente umana si caratterizza per almeno cinque aspetti: (a) è rivolta a un fine più o meno lontano, piuttosto che a una causa immediata, com’è invece l’oggetto di desiderio dell’animale, dunque essa ha una teleologia più complessa e a più lungo termine; (b) è mentale in quanto è rivolta al futuro, che è lo spazio mentale per eccellenza nel monismo ontologico hobbesiano; (c) ha per oggetto precipuo il power, cioè la capacità di ottenere la soddisfazione dei propri appetiti non solo nel presente, ma ancor più nel futuro; (d) è consequenzialistica poiché ricava gli effetti dalle cause, piuttosto che le cause dagli effetti; (d) è condizionale giacché la modalità del nesso causa effetto che interessa al «curioso» è la possibilità.

Si può dire che, con questa rivalutazione della curiosità come proprietà specifica dell’uomo, Hobbes porta a un livello più elevato il grande dibattito sviluppatosi sin dall’umanesimo intorno al tema della «dignitas hominis». In una sorta di ideale arbitrato tra le correnti anti-umanistiche e le tendenze umanistiche del pensiero moderno, Hobbes riconosce alle prime di aver dimostrato l’integrale naturalità dell’antropologia, ma concede alle seconde di aver colto una differenza specifica dell’uomo, irriducibile alla condizione degli altri viventi. La «curiosità» e l’«industria» individuano il proprium dell’umanità. Non si tratta però né di una «facoltà» (la ragione) né di un’essenza metafisica né di un dispositivo immateriale (sia esso l’anima o la libertà assoluta), ma di una «passione» che insieme all’«industria» innesca una serie di procedimenti operativi che, cumulando su se stessi, consentono una reale sviluppo, un autentico progresso della condizione umana al di là della sua base di partenza puramente naturale. Con questa nuova concezione della curiosità, Hobbes pone l’umanesimo all’altezza della scienza moderna: è in grado di spiegare quella che si potrebbe chiamare la «storia naturale» della ragione, e di dar conto della molteplice ricchezza dell’esperienza umana, senza invocare tesi metafisiche precostituite a questa stessa storia. Invece di essere relegata tra le patologie della mente o rimossa dal catalogo delle passioni (come in Descartes e Spinoza) a tutto vantaggio dell’ammirazione, la curiosità ritrova così con Hobbes tutta la sua dignità e centralità, sovrastando nettamente la più antica categoria della «meraviglia» o «ammirazione» di origine aristotelica.

 

(da G. Paganini, Hobbes e la curiosità dei moderni, «Rivista di storia della filosofia», LXXIII, 2018, n. 3, pp. 397-417)*

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