Élites e classi dirigenti nell'Italia repubblicana

  • Carlo Carboni

    Professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro - Università Politecnica delle Marche.

  • Marco Cattini

    Professore di Storia economica - Università Commerciale "L. Bocconi" di Milano.

  • venerdì 29 Aprile 2011 - 17.30
Centro Culturale

In questi anni, prima le ipotesi di declino economico e poi la critica alla «casta politica» hanno spostato l’attenzione dell’opinione pubblica sulle nostre classi dirigenti. Si è molto parlato del loro profilo mediocre, invecchiato, maschile, autoreferenziale, centrosettentrionale, provinciale, a basso ricambio, vocato ai meccanismi di consenso più che a valorizzare le competenze. Insomma, più che una classe dirigente, un insieme di élites bloccate nel segreto delle loro debolezze, disponibili a non decidere pur di durare. Il panorama non proprio incoraggiante che esce dalle nostre ricerche sulle classi dirigenti è stato utile ad accelerare riflessioni e proposte per migliorare lo stato delle cose nelle stanze dei bottoni, nella consapevolezza che tale miglioramento potrebbe stimolare, forse, quel tanto di propensione in più all’innovazione e al riformismo dei quali c’è bisogno nel paese. Esperti e opinion maker sono passati quindi a chiedersi se e come sia possibile colmare quella distanza tra classi dirigenti e società e, in particolare, quel vuoto pneumatico tra classe politico-istituzionale e cittadini che alimenta antipolitica e populismo. Come innovare e migliorare le nostre classi dirigenti? Sembra ci sia un generale accordo che non si tratta di sostituire alcuni personaggi con altri, poiché i sostituti, con ogni probabilità, si rivelerebbero cloni dei precedenti. Gran parte del dibattito si è incanalato in una più feconda discussione sulla necessità di cambiare registro in tema di selezione e formazione per le nostre classi dirigenti: troppa cooptazione e poco merito, troppi privilegi/protezioni e poca competizione, troppi ingressi laterali e poche competenze, troppe teaching universities e poche research universities, pochi grandi progetti-paese e troppi maestri privi di generosità e responsabilità sociale. Un altro filone utile su cui il dibattito si è articolato ruota attorno al tema della fiducia e della reputazione delle nostre classi dirigenti, connesso ad aspetti di responsabilità sociale e di senso etico e legale. Un tema «bollente» che ha portato il nostro giornalismo quotidiano a concentrarsi sul nuovo fantasma che – dopo il declino – si aggira nel nostro paese: l’antipolitica. Tuttavia, Ernesto Galli della Loggia ha giustamente rilevato che le classi dirigenti non possono essere generate in vitro, poiché sono un prodotto storico-sociale. Con questo ci ha ricordato che è bene parlare di una riforma universitaria e della ricerca, di cultura e regole che generano merito e responsabilità, ma che il sapere codificato e le regole non sono sufficienti, occorrono progetti, incentivi e stimoli culturali che sono legati alla cultura sociale del tempo. La nostra classe dirigente del dopoguerra, con la ricostruzione del paese, riuscì a determinare una grande trasformazione dell’Italia, dimezzandone i ritardi rispetto agli altri principali paesi europei. Ma questi scarti, seppur ridotti, sono rimasti inalterati durante gli anni Ottanta e Novanta e, soprattutto, sono tornati a crescere proprio negli anni più recenti. In tema di classi dirigenti e società, ripartirei allora dall’affermazione di Bertrand Russell che le classi dirigenti sono uno specchio della società (del tempo). E, quindi, ogni paese ha le classi dirigenti che merita (e anche le classi dirigenti hanno la società che si meritano). Ma a questa verità ne aggiungerei un’altra. È vero che tutti siamo sulla stessa barca, ma la classe dirigente non soffre i disagi di chi vive e lavora nella stiva: in cambio di questo privilegio, deve dimostrare di saper tracciare una rotta e stare al timone della nave. Ha la responsabilità di governarla e guidarla. E di dare l’esempio.

(da C. Carboni, La società cinica. Le classi dirigenti italiane nell’epoca dell’antipolitica, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 3-6)*

Dal 1922 non si tennero più elezioni amministrative fino al fatidico 1946 quando, caduto il fascismo, finita la guerra, ripristinata un’amministrazione locale d’emergenza, varato il suffragio universale che aprì anche alle donne le cabine elettorali, quasi il 90 per cento dei modenesi iscritti a votare scelsero secondo il sistema proporzionale 40 consiglieri fra i quali figuravano anche tre donne. Con quelle elezioni si apriva una lunga stagione politico-amministrativa dominata dai comunisti che, su 530 consiglieri eletti dal 1946 al 1995, ne hanno ottenuti più della metà. Nei decenni del secondo dopoguerra le amministrazioni della sinistra avrebbero accompagnato la città lungo la tormentata strada dell’industrializzazione e della modernizzazione infrastrutturale, sociale e culturale, concorrendo al raggiungimento di standard amministrativi non diversi da quelli tipici delle più evolute comunità dell’Europa occidentale.
Uno studioso francese ha recentemente paragonato la storia di quelle città che, come Modena, vantano un passato plurimillenario alle pagine di un libro che ogni generazione scrive cominciando da dove ha smesso quella precedente. I nuovi protagonisti della recente stagione politica, per quanto siano parzialmente mutate le condizioni istituzionali e le mentalità collettive, non potranno che inscrivere i loro programmi e le loro azioni nella larga e lunga trama ordita nel passato da migliaia di modenesi che, con vicende alterne, hanno governato la città e il suo territorio consegnandoceli perché, a nostra volta, li trasmettiamo al futuro.
Tralasciare questa avvertenza equivale a condannarsi all’insuccesso della politica e al tradimento della memoria collettiva, cioè dell’identità fondata sull’appartenenza a un mondo, a un luogo, a una cultura, a un sistema di valori. In questa luce, il passato come tessuto di relazioni fra uomini e ambienti, fra singoli e gruppi, istituzionalizzati o meno che siano, viene talvolta percepito come un peso oscuro e ingombrante, del quale, al cospetto della modernità, ci si vorrebbe liberare o che addirittura si tende a rimuovere. È di gran lunga preferibile, invece, imparare a sentirlo come una formidabile risorsa, come una rassicurante quanto potente ragione di autoidentificazione collettiva dalla quale ciascuna comunità può partire e alla quale tornare ogni volta che ci si appresti ad immaginare un qualsiasi futuro.

(da M. Cattini, Tremilacinquecento modenesi al governo del Comune, in Id., a cura di, Al governo del Comune. Tremilacinquecento modenesi per la comunità locale dal XV secolo ad oggi, Modena, Archivio Storico, 1996, p. 23)*


Presiede: Claudio Baraldi

(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)

Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.

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