L'Italia repubblicana

  • Simona Colarizi

    Professoressa di Storia contemporanea - Università di Roma «La Sapienza»

  • Silvio Lanaro

    Professore di Storia contemporanea - Università di Padova

  • venerdì 03 Giugno 2011 - 17.30
Centro Culturale

Quando nel 1946, con le elezioni per l’Assemblea Costituente, i partiti cattolico, socialista e comunista diventano gli arbitri della nuova Italia, la possibilità di dar vita ad una nazione compiuta diviene determinante per la scelta a favore della Repubblica. Rappresentanti delle masse che nel Regno Sabaudo non si sono riconosciute, Dc, Psi e Pci si assumono l’onere di integrarle compiutamente nello Stato repubblicano che va costruito su basi tanto solide da allontanare la minaccia di altre avventure dittatoriali. L’acquisizione di una piena identità nazionale, avviata nei canali partitici, non è però un processo rapido né lineare; tanto più che, investiti di questo compito primario, i partiti si trasformano in garanti delle istituzioni repubblicane, travalicando il ruolo fisiologico di mediatori tra società civile e istituzioni. Sono essi, infatti, a farsi carico della fedeltà dei loro militanti, iscritti e simpatizzanti alla Repubblica democratica che inevitabilmente finisce per venire identificata con il sistema politico, nato già con i connotati di una vera partitocrazia. L’identità partito-Stato garantisce, certo, la fedeltà delle masse in cui è profondamente radicato il senso di appartenenza all’organizzazione politica; ma la maturazione di una coscienza nazionale si ottiene solo per riflesso. A risentirne è soprattutto il rapporto tra i cittadini e lo Stato, che sembra rimanere un’entità estranea agli italiani. Insomma, la patria è il partito; è il partito a definirsi italiano e ad imprimere questo aggettivo sul popolo socialista, comunista e cattolico.
Quando però, sul finire degli anni Ottanta, i partiti cominciano a declinare, è logico che la crisi di fiducia nella rappresentanza politica rimetta in discussione l’intero edificio istituzionale e, in alcune fasce minoritarie, addirittura l’appartenenza allo Stato-nazione. Il livido tramonto del vecchio sistema partitico che si disgrega sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, è immediatamente percepito dall’opinione pubblica come la fine della «prima» Repubblica. E non potrebbe essere altrimenti, se si considera appunto il ruolo che le forze politiche hanno svolto nel 1946, facendosi garanti del patto sui fondamenti. La lunga transizione verso una «seconda» Repubblica palesa tutta la difficoltà di riempire il vuoto, per certi versi incolmabile, lasciato dai vecchi partiti. Eppure, molto prima della morte ufficiale della Dc, del Psi e del Pci, il «partito-nazione» si dissolveva via via che le masse si integravano nella vita dello Stato. La società cambiava, maturava in termini di coscienza democratica, di certezza dei propri diritti; le grandi ideologie declinavano, le subculture si indebolivano nel processo di omologazione culturale che unificava gli italiani. Era logico che questo profondo mutamento mettesse in discussione anche quei grandi partiti che avevano educato e integrato le masse, cercando di trasformarle in una cittadinanza.

(da S. Colarizi, Biografia della Prima Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. X-XIII)

All’Italia postbellica vengono in complesso a mancare una classe politica e un personale amministrativo preparati alle urgenze dell’ora. I vecchi saggi dell’era prefascista rimangono incrollabilmente aggrappati all’heri dicebamus, come spesso accade a chi raggiunge un’età veneranda e assiste alla propria opera interrotta, snaturata o vilipesa da una mandria di «asini selvaggi», per cui non riescono a capire il valore di rottura dell’esperienza partigiana, le trasformazioni introdotte nella struttura economica del paese, gli enormi mutamenti del quadro internazionale, le caratteristiche di una politica di massa ad alta gradazione ideologica: nella sua qualità di primo Presidente del consiglio designato dal CLN, nel novembre del 1944 Ivanoe Bonomi cerca di rilegittimare la monarchia violando la cosiddetta «tregua istituzionale» e rassegnando le dimissioni del suo gabinetto nelle mani del luogotenente generale del regno, non senza aggiungere un contributo personale alla continuità dello stato assegnando alla magistratura ordinaria – e quindi sottraendo all’Alto commissariato, creato ad hoc come organo eminentemente politico – i procedimenti in materia di epurazione e di defascistizzazione; Luigi Sturzo, nel suo intransigente liberismo, appena rientrato dagli Stati Uniti mostra di non tollerare l’economia mista e il sistema delle partecipazioni statali, contro i quali conduce memorabili battaglie giornalistiche; Vittorio Emanuele Orlando, ancora persuaso che l’Italia sia – se non proprio «grande» – almeno una piccola «potenza», in piena Assemblea costituente e in sede di ratifica del Trattato di pace bolla di «cupidigia di servilismo» il governo De Gasperi che propone l’approvazione del «diktat»; Francesco Saverio Nitti, forse il più lucido e gagliardo di tutti, non perde un’occasione per manifestare tutta la sua insofferenza verso i democristiani e i comunisti, verso il loro stile, verso il loro linguaggio, verso il loro attivismo frenetico e invadente, che tanto gli rammentano le tecniche di mobilitazione totalitarie di cui ha letto le cronache sui giornali; chiuso come un nume sentenzioso e corrucciato nelle stanze di Palazzo Filomarino, Benedetto Croce si scaglia contro tutti i programmismi economico-sociali – prendendosela in special modo con i «molto faziosi cervelli del Partito d’Azione», tra i quali spiccano quelli dei suoi prediletti collaboratori Guido De Ruggiero e Adolfo Omodeo – in nome dell’«onnicomprensività dell’idea morale di libertà». (…)
Ora, se un paese stremato e avvilito, insanguinato nelle sue regioni più prospere da una feroce guerra civile, economicamente dipendente dagli aiuti stranieri, poco ascoltato e poco stimato dagli ex-nemici, deluso dalla prova dei fatti nelle sue velleità modernizzatrici, governato da un ceto politico o inesperto o conservatore, segnato dall’approfondirsi delle fratture fra un nord che ha attraversato una primavera di rinnovamento e di mobilitazione popolare – nonostante la caduta delle più frettolose speranze rivoluzionarie – e un sud dove la restaurazione del vecchio stato è avvenuta invece senza difficoltà e senza scossoni, con un esercito, una magistratura e una polizia tutt’altro che convertiti alla democrazia, con il predominio di due partiti di massa – intrisi di escatologismo e di miracolismo – dei quali la guerra fredda esalta la naturale faziosità, non si disintegra e non precipita in faide e convulsioni simili a quelle che portano la Grecia alla dittatura, è anche perché il bisogno di «affidarsi», la regressione infantile e la conseguente ricerca di paternità caratteristica degli sconfitti, il desiderio di trarre sicurezza dall’azione di leader circondati da un’aureola di rasserenante infallibilità, per una singolare serie di circostanze si concentrano nella figura di due uomini – Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti – il cui immenso carisma non è una funzione diretta dell’ideologia che professano e le cui doti personali non sono attinte esclusivamente alla tradizione culturale di provenienza.

(da S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 24-28)

Presiede: Giuliano Albarani

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