Il lavoro e i lavoratori nell'Italia repubblicana

  • Lorenzo Bertucelli

    Professore di Storia contemporanea - Università di Modena e Reggio Emilia

  • Adolfo Pepe

    Direttore della Fondazione "Giuseppe Di Vittorio", Roma

  • martedì 17 Maggio 2011 - 17.30
Centro Culturale

Negli ultimi anni si è verificata una ripresa di interesse da parte della storiografia italiana intorno allo snodo degli anni Settanta, spesso definiti gli anni della crisi. Proprio la nozione di crisi ha attirato coloro che erano alla ricerca delle radici storiche del profondo travaglio politico e istituzionale che ha attraversato il paese nel corso degli anni Novanta. Sempre più il decennio compreso tra l’Autunno caldo e l’affermazione del post-fordismo viene individuato come periodizzante, lì si esaurisce "l’età dell’oro" dello sviluppo capitalistico internazionale, trova compimento la stagione del ferro e dell’acciaio del "secolo lungo"(1870-1980), entrano in crisi – con il declino della grande industria manifatturiera – gli istituti del welfare e si ridefinisce il ruolo stesso dello Stato nazionale. Dinamiche internazionali che non esauriscono, tuttavia, le peculiarità della crisi italiana appesantita da eredità antiche: uno sviluppo poco governato, un miracolo economico emerso come "frutto selvatico", una presenza pubblica dello Stato più espressione di interessi particolari di ceti e corporazioni che improntata ad una programmazione o ad una razionalizzazione strategica dell’interesse collettivo, un sistema politico bloccato e incapace di rispondere alle domande di una società in rapida trasformazione, élites sociali imbevute di tradizionalismo e di mentalità conservatrici più consone all’Italia rurale che a un paese ormai dominato dalla dimensione urbano-industriale.
Con la lunga crisi economica che si apre con il 1973 vengono al pettine i problemi legati alla "modernizzazione senza sviluppo" e alla mancata attuazione di una coerente politica riformatrice in grado di accompagnare la crescita del secondo dopoguerra. Il sistema politico-istituzionale italiano non riesce, nemmeno negli anni del "boom" e con i governi di centro-sinistra, a compiere il salto decisivo nel processo di democratizzazione del paese: creare gli spazi politici per riuscire ad integrare pienamente il movimento operaio e sindacale nello Stato e favorire il consolidamento di relazioni industriali efficaci per un paese entrato prepotentemente nell’età del fordismo maturo. Così, il nesso inclusione-esclusione diviene una delle chiavi esplicative più efficaci per mettere in relazione storia d’Italia e storia del sindacato. È difficile, cioè, "ricostruire la storia dell’Italia contemporanea ignorando che tutte le principali scelte sono state prese, il più delle volte, in riferimento alla soluzione di problemi posti dall’esistenza di un movimento operaio che aveva di volta in volta forza e debolezza", così come sottovalutando – se non per una volontà di ricostruzione storica dalla quale sia espunta la dimensione del conflitto – che il sindacato si profila come elemento primario nella delimitazione del potere dello Stato e delle élites dominanti. Analogamente è bene inquadrare il sindacato come istituzione intermedia, dotata di una propria autonomia che deriva dalla sua specifica funzione di mediazione tra il mondo del lavoro e il sistema istituzionale. Un’organizzazione che riunisce funzioni di rappresentanza sociale e di contrattazione collettiva, e funzioni di mediazione/contrattazione istituzionale nel rapporto con lo Stato e i poteri pubblici. È in questa complessità che si colloca la coesistenza della prospettiva conflittuale con quella contrattualistica, che richiama la stessa compresenza nelle culture operaie della propensione all’antagonismo e della disponibilità alla collaborazione produttiva, e che in epoche di crisi e di ridefinizione dei rapporti di potere pone il sindacato al centro di forti tensioni sia nel rapporto con il mondo del lavoro che con il sistema istituzionale: è il caso degli anni che seguono il 1969. La forza acquisita dal sindacato assesta uno scossone agli equilibri sociali e al sistema produttivo basati sui bassi salari e sui bassi consumi, e al sistema politico investito dal protagonismo di un soggetto collettivo fino a quel momento sostanzialmente escluso dall’ambito decisionale.
È bene, in questo senso, abbandonare l’idea della "cinghia di trasmissione", così come è necessario superare davvero la contrapposizione tra una storia del sindacato tutta interna alla dimensione politico-organizzativa e una storia del movimento operaio "senza" organizzazione e politica o "nonostante" l’organizzazione. Approcci, peraltro, ora entrambi poco praticati dalla storiografia, ma che discendono dalla contrapposizione tra organizzazione e classe emersa negli anni Sessanta e Settanta. Si tratta di eredità culturali che hanno contribuito a marginalizzare, una volta scemato l’interesse politico-culturale per la classe operaia, la vicenda sindacale nella storia d’Italia perché non hanno individuato quella funzione complessa del sindacato "istituzione intermedia" che è insieme legata sia all’ispirazione politica e alla tensione economico-rivendicativa, sia alla mediazione/conflittualità con le istituzioni e alla rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro.

(da L. Bertucelli, Piazze e palazzi. Il sindacato tra fabbrica e istituzioni: la CGIL, 1969-1985, Milano, UNICOPLI, 2003, pp. 13-16)

La crisi dell’unità e dell’identità nazionale, il grave deterioramento della democrazia repubblicana, l’anomia e l’intrinseca indifferenza per l’etica e per il bene pubblico rivelate dalle classi dirigenti in Italia affondano le radici nelle trasformazioni della società, dell’economia e delle istituzioni politiche sviluppatesi nel corso del Novecento (…). La costruzione, il consolidamento e l’azione di una stabile organizzazione sindacale, nella storia del Novecento non solo italiano, appaiono come un fenomeno di straordinaria rilevanza per il suo carattere «baricentrico». Nella transizione dalla società agricola a quella del capitalismo industriale, il sindacato si situa, infatti, quale punto di sintesi tra la mobilitazione politica di massa, l’instabilità delle istituzioni pubbliche rappresentative, i processi di coesione sociale e di integrazione territoriale e nazionale, nonché quelli connessi alla scomposizione e riaggregazione delle classi dirigenti. Sulla scia di questi parametri e dell’analisi dei più significativi passaggi che hanno solcato la storia italiana, tra la crisi degli ultimi decenni dell’Ottocento e l’attuale complessa transizione, la nostra interpretazione è percorsa dall’ipotesi che il Novecento è intelligibile, anche e soprattutto, come il secolo del sindacato. Senza la comprensione della sua funzione di rappresentanza e tutela degli interessi e dei diritti dei lavoratori, senza la sua azione conflittuale, contrattuale e programmatica, senza i valori etico-politici che ne hanno costituito il lievito ideale per intere generazioni (dignità dell’individuo, solidarietà e utilitarismo) è preclusa la comprensione non solo della trasformazione del lavoro e delle sue regole ma anche dei fenomeni più dirompenti e controversi di questo secolo, dalla crisi della società liberale all’affermazione dei regimi totalitari di massa, dai grandi compromessi del «welfare» all’attuale declino delle tradizionali forme della democrazia capitalistica. Le acute tensioni disgregatrici della dimensione nazionale, alimentate dal riemergere di identità etno-culturali e interessi geoeconomici frazionati, dai processi di globalizzazione dei mercati, sotto l’effetto della nuova fase dell’innovazione tecnologica, e dalle crescenti ondate immigratorie provenienti dal sud-est europeo, dall’Africa e dalle aree di confine euro-asiatiche, stanno alterando profondamente il profilo sociale, i valori e le prospettive politico-ideali delle élites dirigenti nei confronti delle masse, in tutti i principali paesi occidentali. Si sta infrangendo quel patto di lealtà raggiunto faticosamente in questi decenni e, al suo posto, si diffonde una pericolosa contrapposizione tra una inedita oligarchia di potere e un insieme di ceti, gruppi, individui amorfi e privi di una significativa rappresentanza politica e sindacale. Gli studi sul sindacato possono continuare a svolgere una importante funzione ermeneutica, contribuendo a orientare e stimolare la riflessione storica contemporanea proprio su questa complessa transizione che comprende tutti i principali elementi costitutivi elaborati in questo secolo.

(da A. Pepe, Il sindacato nell’Italia del Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996, pp. 7-8)


Presiede: Tindara Addabbo

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